
Foto copertina: La sede del New York Times a Manhattan. Foto: Flickr.
I programmi di diversità, equità e inclusione procedono a rilento tra i grandi editori.
Le politiche Dei prevedono che l’azienda svolga un ruolo attivo nel promuovere un ambiente di lavoro non discriminatorio.
Il suo stato di avanzamento viene misurato in modo autonomo da alcuni editori, che poi hanno scelto di condividere con la rivista online Digiday i dati per il monitoraggio, relativo allo status quo dello scorso anno.
Nel 2020, l’impegno su questo fronte ha avuto un’impennata, soprattutto in seguito alla reazione internazionale suscitata dall’omicidio di George Floyd a opera da parte di un poliziotto del Minnesota.
Ma già dopo soli quattro anni, si evince dai dati, il calo di attenzione su questi temi era evidente.
Oggi, anche in seguito alla rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca, il clima sembra decisamente cambiato.
E le aziende si stanno adattando.

La sede centrale di Hearst a San Francisco, in California, disegnata dall’architetto britannico Norman Foster. Foto: Flickr.
Numeri alla mano
Secondo i risultati condivisi da Digiday, l’impegno dei grandi editori sulla Dei, nonostante alcuni significativi risultati, è rallentato nel 2024, complice anche un calo di attenzione generale.
A giugno dello scorso anno, la stessa rivista già segnalava risultati altalenanti nelle iniziative di diversità e inclusione all’interno delle redazioni.
In particolare, la testata segnalava che la percentuale di dipendenti bianchi era rimasta invariata nelle testate del gruppo statunitense Hearst e al New York Times, rispetto al 2022.
I cambiamenti demografici interni, tuttavia, andavano riletti anche alla luce dei licenziamenti effettuati dagli editori stessi.
I rapporti annuali del 2024 di New York Times, Hearst e Condé Nast hanno mostrato miglioramenti marginali o stagnazione sul fronte della diversità.
A oggi, sottolineano i dati, il personale bianco è ancora in maggioranza, così come le donne – con l’unica eccezione di Hearst, in cui la percentuale femminile è scesa al 46% del totale.
Sul fronte delle nuove assunzioni, Condé Nast ha assunto una percentuale di personale di colore in crescita rispetto all’anno precedente.
Secondo un memo interno firmato da Cheryl Kaba, la nuova Chief diversity officer – ossia responsabile dei programmi di diversità e inclusione del gruppo editoriale che pubblica, tra gli altri, GQ, New Yorker, Vogue e Wired – l’editore ha registrato una “crescita positiva” nella diversità delle nuove assunzioni, anche se la rappresentanza generale di donne e persone di colore è rimasta “relativamente stabile”.

Il One World Trade Center a New York, sede di Condé Nast. Foto: Wikimedia Commons.
Problema in cima
Sui ruoli dirigenziali si tracciano maggiori discrepanze.
Lo scorso anno, in Condé Nast il 76% dei manager è stato composto da persone bianche, percentuale in crescita dell’1% rispetto al 2023. Il 61% dei dirigenti è donne, in diminuzione del 4% rispetto allo scorso anno.
All’interno di Hearst, nel 2024 le donne hanno rappresentato il 44% del totale dei manager, la stessa percentuale dell’anno prima. Nel complesso delle posizioni apicali, i bianchi sono stati il 74%, in calo di tre punti percentuali sul 2023.
Dal New York Times si apprende invece che le persone bianche hanno costituito il 68% dei manager del gruppo nel 2024 – la stessa quantità dell’anno precedente – e le donne sono state il 56% del totale dei dirigenti, con una crescita annuale di un punto percentuale.
Secondo i rappresentanti sindacali del New York Times e di Condé Nast, le trattative contrattuali dello scorso anno hanno visto attriti proprio su temi Dei, come il mantenimento e il reclutamento di personale di colore.
A Condé Nast, per esempio, si è discusso a lungo sulla composizione del comitato per la diversità e sul numero di delegati per le attività di reclutamento inclusivo.

Un’attività aziendale dedicata alla Dei. Fonte: Wikimedia Commons.
Dei si fa, non si racconta
Leggendo i dati, i numeri in senso assoluto non sono scoraggianti.
In effetti, c’è molto dibattito sulla validità di un sistema come le quote, necessarie per sopperire a discriminazioni secolari, ma che a volte potrebbero andare a detrimento di merito o qualità.
Un arco temporale di cinque anni è troppo breve per valutare a tutti gli effetti gli esiti del nuovo corso intrapreso dalle aziende e si dovrebbe essere cauti nel paventare l’arresto di queste politiche.
Ci sono però alcuni segnali di contorno che destano allerta. Ad esempio, non tutti gli editori rendono disponibili i propri dati.
La holding Gannett, proprietaria di Usa Today e diversi quotidiani locali negli Stati Uniti, ha smesso di pubblicare il suo rapporto annuale, come riportato da Nieman Lab.
“Anche se non pubblichiamo più i dati demografici, restiamo impegnati a promuovere una cultura inclusiva”, ha dichiarato un portavoce dell’azienda.
Allargando lo sguardo, dal 2020 il numero di iniziative anti-Dei presentate dagli azionisti è triplicato, dimostrando una crescente opposizione ai programmi aziendali volti a diversificare i processi di assunzione e promuovere un ambiente lavorativo inclusivo.
Segnala Forbes che l’abbandono degli investimenti in Dei è una tendenza in atto fin da molto prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca.
Ad alimentarla, evidenzia Mediatrends, sarebbero le incertezze economiche, la polarizzazione e l’irritazione di una parte consistente della popolazione contro la cosiddetta cultura woke.

Foto: Pexels.
Due squadre
Axios ha stilato un elenco di grandi nomi dell’industria statunitense. Alcuni hanno deciso di allentare l’attenzione sui programmi Dei, altri continuano a sostenere le politiche di inclusione, nonostante l’avversione del governo.
Tra le big tech, Google, Amazon e Meta hanno deciso di eliminare i loro programmi di Dei.
Altri giganti come Disney, YouTube e Warner Bros. Discovery hanno abbandonato la dicitura DEI scegliendo il termine di “inclusione”.
Persino Hollywood e diverse banche di Wall Street hanno fatto un passo indietro.
Per affrontare questa situazione complessa, alcune aziende stanno già cercando di innovare il loro approccio, aggiornando la narrazione e spiegando che queste tematiche non riguardano solo il supporto a gruppi specifici, ma il miglioramento dell’esperienza lavorativa di tutti.
Per gli editori globali la sfida sulla Dei è anche quella di scegliere tra un approccio centralizzato e uno che si adatta maggiormente alle esigenze culturali, politiche, sociali del territorio.
Spesso le aziende si trovano dunque a gestire un doppio binario: da un lato l’Europa, dove si discute di introdurre nuove normative per rafforzare l’inclusione, dall’altro gli Stati Uniti, dove il tema è sempre più polarizzante e potenzialmente dannoso in termini reputazionali e legali.
In mezzo, i consumatori e i dipendenti, con cui le imprese devono mantenere un dialogo coerente e costruttivo.
Bisognerà quindi attendere, per capire se si tratta soltanto di scelte strategiche di comunicazione – e se il cambiamento culturale è davvero, ancora, in atto –, mantenendo alta l’attenzione.