Il successo della nuova propaganda cinese durante la ritirata degli Stati Uniti

Di il 08 Agosto, 2025
Mentre Washington non investe più come prima in diplomazia pubblica e comunicazione per sfruttare il proprio soft power, Pechino spende miliardi in propaganda, passando anche per gli influencer
Foto: Pexels.

Nell’ambito della comunicazione strategica a livello internazionale, la Cina sta guadagnando terreno con una strategia di propaganda ben finanziata e capillare, mentre gli Stati Uniti sembrano aver perso quello slancio che li ha caratterizzati per almeno tutto il XX secolo e i primi anni 2000. Da quando, cioè, hanno abbandonato molte delle loro storiche leve di soft power.

Il Paese del Dragone investe miliardi proprio in azioni propagandistiche e nella propria strategia di diplomazia pubblica, mentre Washington sembra aver perso il filo di una narrazione coerente e incisiva, affidando quasi in toto la sua comunicazione politica ai social.

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L’ex sede centrale di Voice of America a Washington, DC. Lo scorso anno, l’emittente si è trasferita in nuovo edificio, sempre nella capitale degli Stati Uniti. Foto: Flickr.

Addio predominio americano

Per oltre 100 anni, gli Stati Uniti hanno dominato il campo del soft power grazie a mezzi di informazione come Voice of America, Radio Free Asia e il Global Engagement Center – Gec.

Questi canali non solo diffondevano valori democratici, ma contrastavano attivamente la disinformazione estera, in primo luogo sovietica. Tuttavia, con la chiusura del Gec e i tagli ai fondi di queste emittenti, Washington ha accentuato la sua vena isolazionista, lasciando campo libero alla controparte cinese.

Secondo il sottosegretario di Stato Darren Beattie, di cui il Foglio ha evidenziato proprio le simpatie per la Cina, la libertà di espressione è la risposta americana alla propaganda cinese, come affermato anche dal segretario di Stato Marco Rubio.

Ma questa posizione, per quanto idealistica, si scontra con una realtà in cui Pechino sta costruendo narrazioni precise e pervasive, mentre gli Stati Uniti si affidano a un ecosistema informativo decentralizzato e spesso disorganico.

“Stiamo perdendo questa guerra in modo disastroso”, ha dichiarato in un’intervista a Semafor il deputato democratico dell’Illinois e membro della commissione speciale della Camera sul partito comunista cinese, Raja Krishnamoorthi.

La decisione di Rubio, ha aggiunto, “è una follia, è pura stupidità ed è l’opposto di quello di cui abbiamo bisogno per vincere la competizione strategica con il partito comunista cinese per l’influenza globale”.

Secondo alcuni esponenti politici americani, questa battaglia culturale gli Stati Uniti la stavano già perdendo.

“Nel complesso, stavamo giocando ai margini”, ha detto un ex alto funzionario politico a Semafor.

Altri intervistati rimasti anonimi, in passato dipendenti del Gec, hanno raccontano alla testata di aver lavorato con budget irrisori, mentre la Cina moltiplicava i suoi canali di influenza.

Di conseguenza, secondo i dati del Pew Research Center, Pechino è riuscita nel suo obiettivo: accrescere la percezione positiva nei propri confronti nei Paesi ad alto reddito e intaccare la centralità americana nel dibattito globale.

Il deputato democratico dello Stato dell’Illinois, Raja Krishnamoorthi. Foto: Wikipedia

Tattica cinese

Così, mentre oltreoceano si lamenta una mancanza di visione unificata e un’assenza di investimenti e coordinamento, la Cina ha abbandonato lo stile aggressivo dei cosiddetti wolf warrior su X, tornando a una diplomazia più classica e strategica.

In particolare, negli ultimi anni, il regime del presidente cinese Xi Jinping ha puntato anche sul potere di influencer e content creator stranieri – soprattutto americani – per continuare a migliorare l’immagine del proprio Stato.

Non si tratta più solo di media statali come China Global Television Network – un’emittente televisiva visibile in diversi Paesi del mondo, compresa l’Italia, e nata con uno scopo di contro-propaganda simile a quello di Voice of America – ma di un ecosistema digitale in cui la narrazione personale diventa uno strumento geopolitico.

Tra gli influencer più noti ci sono, ad esempio, Vica Li, con oltre 1,4 milioni di follower su YouTube, TikTok e Instagram, che si presenta come blogger di lifestyle e nei suoi contenuti racconta di una Cina idilliaca, moderna e accogliente ma spesso omette qualsiasi riferimento a questioni spinose come la repressione degli Uiguri o la censura interna.

A essere coinvolti in un vasto panorama digitale, per diversi media internazionali sarebbero oltre 200 celebrità del web, che operano in 38 lingue, diffondendo contenuti che esaltano le virtù del Paese.

La Cina, dunque, non vuole imporre la sua narrativa all’estero in maniera esplicita. La inserisce invece nei feed social di tutti i giorni, nei blog di viaggio, nei consigli di moda, rendendola parte del racconto digitale globale e sfruttando la leva della viralità.

Una strategia che si sta rivelando molto efficace in un’epoca in cui la comunicazione è sempre più frammentata e personalizzata.

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Chiara Buratti muove i suoi primi passi nel mondo del giornalismo nel 2011 al "Tirreno" di Viareggio. Nel 2012 si laurea in Comunicazione Pubblica e nel 2014 consegue il Master in Giornalismo. Dopo varie esperienze, anche all'estero (El Periódico, redazione Internazionali - Barcellona), dal 2016 è giornalista professionista. Lavora nel web/nuovi media e sulla carta stampata (Corriere della Sera - 7, StartupItalia). Ha lavorato in TV con emittenti nazionali anche come videoeditor e videomaker (Mediaset - Rete4 e Canale 5, Ricicla.tv).