
Aaron Hicklin, ex-direttore di Out Magazine, rivista statunitense di moda, intrattenimento e attualità con tematiche Lgbtq+, con la più alta diffusione nel suo Paese tra i mensili rivolti allo stesso pubblico, ha scritto un lungo articolo sul New York Times, sancendo la fine del “capitalismo arcobaleno“.
L’età dell’oro si è trasformata in un decennio di lustrini e paillette, in cui sono esplosi i budget pubblicitari dedicati alle comunità arcobaleno.
Un momento di gioia universale, ricorda Hicklin, ma anche un ottimo affare.
Ma da qualche tempo, il pride è fonte di divisione. “Come se fosse mai stato apolitico”, scrive Hicklin.
E con il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, le aziende rischiano anche di andare incontro ad azioni legali.
Si torna indietro
Come si sa – e spesso mostrato dal genio autoscale dei Simpson – l’America è un trend-setter, cioè anticipa andamenti che poi seguono anche in Europa.
Per questo è importante guardare a cosa sta succedendo oltre l’Atlantico.
La Southern Baptist Convention, incoraggiata dall’annullamento della sentenza Roe v. Wade che garantiva il diritto all’aborto, ha puntato al caposaldo Obergefell v. Hodges, la sentenza della Corte Suprema che dieci anni fa aveva legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso su tutto il territorio nazionale.
Come riportato sul Guardian da Miriam González Durántez, fondatrice di Inspiring Girls, organizzare un evento di networking femminile negli Stati Uniti è diventato un atto di sfida.
Le aziende che promuovono agende basate sull’uguaglianza e l’inclusione rischiano di perdere appalti e fondi pubblici.
Alcune ricevono lettere in stile maccartista – un termine derivato dal Senatore McCarthy, promotore della cosiddetta “caccia alle streghe” contro le frange comuniste negli anni Cinquanta durante la guerra fredda – in cui si chiede loro di dichiarare l’assenza di politiche in favore della diversità.
Inspiring Girls è già stata invitata a “includere uomini come modelli di riferimento”.
E infatti, l’American Institute for Boys and Men, ha ricevuto un finanziamento da 20 milioni di dollari da Melinda French Gates.
Questa ondata anti-diversità non è solo una reazione sociale agli eccessi della cosiddetta wokeness: è un progetto politico preciso e strategico, scrive González Durántez.
Ed è un progetto internazionale, come per l’Alliance for Responsible Citizenship, guidata dalla baronessa Philippa Stroud che, critica della leadership trumpiana, richiama a principi di ricostruzione della civiltà occidentale su basi cristiane.
Lungo esodo
La fine del capitalismo arcobaleno ha preso forma nel 2021, quando il senatore Josh Hawley ha dedicato l’intero discorso inaugurale della seconda National Conservatism Conference al tema della “riconquista della mascolinità“, sostenendo che ai ragazzi (e non alle ragazze) vadano insegnate competitività, forza, onestà e coraggio.
L’amministrazione Trump, in almeno due ordini esecutivi ha vietato le politiche Dei all’interno del governo federale.
Uno dei due provvedimenti incoraggia il settore privato a seguire l’esempio di Washington, eliminando i loro programmi di equità e inclusione, al fine di “ripristinare le opportunità basate sul merito”.
In un altro ordine esecutivo, il governo dichiara di riconoscere soltanto due sessi, maschile e femminile.
Per ora, non ha ancora imposto obblighi diretti alle imprese per smantellare i programmi di diversità, salvo che per le aziende con contratti pubblici — incluse alcune con sede nell’Unione Europea. Eppure, molte imprese – anche a Hollywood – stanno smantellando le politiche aziendali inclusive in autonomia.
Del resto, segnala Forbes, l’abbandono degli investimenti in Dei è una tendenza in atto fin da molto prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca.
Axios ha stilato un elenco di grandi nomi dell’industria statunitense. Alcuni hanno deciso di allentare l’attenzione sulla Dei, altri continuano a sostenere le politiche di inclusione, nonostante l’avversione del governo.

Un’immagine dell’edizione 2025 del pride di Città del Capo, capitale del Sudafrica, organizzato tra febbraio e marzo. Foto: Wikimedia Commons.
Segnali precedenti
La marcia indietro non è avvenuta dal nulla.
I segnali d’allarme sono arrivati nel 2023, quando Bud Light, marchio di proprietà del gruppo Anheuser-Busch, si è associato con la influencer transgender Dylan Mulvaney per un post sponsorizzato su Instagram, in concomitanza con la fine del torneo March Madness.
La reazione è stata rapida e spettacolare: Kid Rock si è filmato mentre sparava alle confezioni di birra con un fucile, il commentatore conservatore Ben Shapiro ha pubblicato un lungo sfogo di 12 minuti.
Gli organizzatori del San Francisco Pride si sono trovati a dover fronteggiare un deficit di 200mila dollari dopo la fuga non solo di Anheuser-Busch, ma anche di sponsor storici come Comcast e Diageo.
A New York, circa un quarto dei donatori aziendali ha cancellato o ridotto il proprio contributo, lasciando gli organizzatori a coprire un buco di 750mila dollari.
BarkBox, Garnier, Skyy Vodka, Mastercard, Diageo, PepsiCo, Comcast, Citi e PricewaterhouseCoopers hanno tutti ridotto i loro impegni per l’edizione di quest’anno dell’evento.
Target, storicamente una delle colonne portanti del capitalismo arcobaleno, è rimasta sponsor del pride di New York ma ha chiesto agli organizzatori di mantenere un basso profilo.
L’azienda è stata inoltre esclusa come sponsor del Twin Cities Pride dopo aver ridotto i suoi sforzi in tema di diversità, equità e inclusione.

La campagna Oreo dedicata al Pride. Foto: Flickr.
Non solo fuffa
Per Hicklin, l’arrivo dei biscotti Oreo a tema Pride nel 2020 ha segnato un’evoluzione significativa.
“Eravamo passati da devianti sociali e fuorilegge sessuali a persone rispettabili sugli scaffali dei supermercati”.
Ma ecco il punto sulle campagne di marketing: mirano a vendere prodotti, non a cambiare la cultura.
E quando la cultura prende un’altra direzione, come è accaduto specialmente dopo la rielezione di Trump, l’alleanza aziendale si trasforma in rifiuto aziendale.
Questo arretramento conferma quello che alcuni critici sostengono da tempo, ossia che i grandi marchi multinazionali hanno appiattito l’identità queer in un consumismo insipido.
Ma, scrive l’ex-direttore di Out Magazine, “se le edizioni pride di Listerine e Oreo potevano sembrare frivole, riflettevano però quanto la società fosse cambiata”.
Per questo, occorre ad esempio ricordare che Jude Cook, romanziere, critico e docente associato di scrittura creativa all’Università di Westminster, ha lanciato una nuova casa editrice indipendente che pubblicherà narrativa rivolta agli uomini.
“Quei biscotti Oreo erano un espediente di marketing, ma accompagnato dal sostegno finanziario di Oreo all’organizzazione Pflag National”, che poteva avere un impatto concreto.
Sotto l’iniziativa Care With Pride, Johnson & Johnson – fino a pochi anni fa proprietaria di Listerine – ha donato oltre 1,5 milioni di dollari a organizzazioni no-profit Lgbtq dal 2011.
Contro radicalismo social
Negli due decenni, gli attivisti queer hanno utilizzato i social media per mettere alla gogna le aziende americane per la loro storica negligenza verso i diritti Lgbtq.
Twitter, ora X, ha esasperato le reazioni.
Hicklin riporta l’esempio di Bolthouse Farms, produttore di succhi di carota, chiamato a fare ammenda per una donazione del suo fondatore a un’iniziativa anti-matrimonio gay in California.
Il fatto che il fondatore non fosse più affiliato a Bolthouse è passato inosservato alla comunità Lgbtq, che ha osteggiato l’azienda.
Il danno d’immagine ha richiesto molto tempo a essere sanato.
“Ci siamo forse danneggiati da soli accanendoci contro una compagnia di succhi di carota o impanicandoci nel 2013 per le dichiarazioni del presidente Barilla che non avrebbe mai mostrato famiglie gay nelle pubblicità?”, chiede l’autore.
“Si sa, anche la pasta deve essere progressista”.
Carl Rhode, nel 2022, è stato quasi profetico, scrivendo in Capitalismo Woke: “L’impegno delle imprese nelle politiche progressiste danneggia la democrazia e impedisce il progresso. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla credenza che il cambiamento radicale possa arrivare da chi ha come interessi primari il profitto e la crescita”.
Eppure, la fine del “capitalismo arcobaleno” non riguarda solo la perdita di finanziamenti, ma qualcosa di più profondo e doloroso.
Nel documentario in onda su Disney+, Vogue – The 90s, è evidente il modo in cui, grazie alla guida di Anna Wintour – giunta al termine dopo 37 anni –, l’intera fashion community abbia contribuito all’eliminazione dello stigma sull’Hiv.
Questo perché molti membri della comunità ne erano colpiti, perciò era come difendere parte della propria larga famiglia.
Il dolore della perdita era condiviso dai vertici dai marchi più importanti, che si erano spesi per aumentare la sensibilizzazione socio-politica sull’Aids.
Ma così come il voto elettorale è volatile, figuriamoci l’orientamento delle aziende.
“Come spiegare altrimenti il fatto che Coinbase, Coca-Cola, Walmart, ScottsMiracle-Gro e Goldman Sachs abbiano sponsorizzato la parata per l’anniversario dell’esercito lo scorso sabato, una sorta di Pride in salsa Maga?”
Durante il Super Bowl, tra gli appuntamenti mondani più importanti negli Stati Uniti e per cui le aziende investono ingenti capitali per poter ottenere spazi promozionali, si è assistita a un’inversione di tendenza inequivocabile.
Dopo anni di messaggi su inclusione e finalità sociale, lo stile comunicativo degli spot sembra rivolgersi a un pubblico più conservatore.
La fine del capitalismo arcobaleno non è un fenomeno solo americano, come riferisce Flora Joll, direttrice dell’agenzia creativa Joan London, e non riguarda soltanto i diritti civili.

Madonna canta il suo singolo Vogue durante un evento di raccolta fondi per l’Aids, nel 1990. Foto: Flickr.
Mestieri diversi
Per la prima volta dal 2012, Nike non ha lanciato la collezione pride Be True.
Da un lato, come affermato da Rhodes, se le risorse aziendali vengono indirizzate verso principi di moralità pubblica, è la stessa democrazia a essere in pericolo perché imbrigliata a un interesse privato.
Secondo l’autore, il dibattito civico e il dissenso democratico vengono sostituiti dalle campagne di marketing e pubbliche relazioni, con il pericolo di rafforzare la concentrazione del potere politico nelle mani delle èlites aziendali.
Dall’altro lato, Hicklin ricorda parate negli anni Novanta, guerriglia teatrale per le strade, sfilate non patinate ma “caotiche, urgenti, autenticamente nostre. Per quanto sia lusinghiero essere corteggiati, c’era qualcosa di potente in quei pride più radicali e politicizzati, quando il senso di comunità prevaleva sull’ostentazione delle alleanze aziendali”.
Si sta cercando una via di mezzo.
I cittadini avranno l’opportunità di ritrovare lo spirito comunitario anche senza una sponsorship aziendale.
Le aziende smetteranno di dover fare pink o rainbow washing – cioè quelle pratiche di marketing costruite per apparire inclusive nei confronti della comunità Lgbtq+, senza però attuare azioni concrete ed efficaci – se si renderanno conto che non è da questo che dipende la scelta di consumo dei propri utenti.
Se è la fine del capitalismo arcobaleno, si farà un degno funerale.
Ma a tutti i costi bisogna evitare un ostruzionismo radicale e di reciproca condanna.