Un dialogo sul Digital News Report 2025 con la curatrice Celeste Satta

Di il 20 Giugno, 2025
Unsplash foto fotocamera giornalismo
"I giornalisti considerino il digitale come il fratello estroverso dell'informazione", dice la sociologa. "Gli ambienti comunicativo e informativo sono legati, ma la notizia deve prevalere"
Una versione in lingua inglese di questo articolo è stata pubblicata dallo stesso autore il 21 giugno 2025.

Il Digital News Report 2025 del Reuters Institute dell’Università di Oxford anche quest’anno si è confermato uno degli appuntamenti più attesi dell’anno. Le testate e i professionisti del settore lo hanno divorato, trovando qualche conferma ma, soprattutto, tante questioni aperte.

Se il giornalismo tradizionale è in crisi, è anche vero che da circa tre anni la fiducia generale nel panorama informativo è stabile al 40%.

Il report è strutturato su 48 mercati e sei continenti ed evidenzia come i social media abbiano reso davvero globali alcune tendenze. Si sta generando, però, una differenza sostanziale tra i due lati dell’Atlantico.

Infatti, negli Stati Uniti il grado di polarizzazione sta crescendo, perché la popolazione è divisa su molti temi. Tra questi, su cosa si debba intendere come libertà di parola, un tema su cui invece gli europei si mostrano più severi.

Celeste Satta, sociologa della comunicazione, collabora con il master in giornalismo dell’Università di Torino che ha stretto una collaborazione con il Reuters Institute.

Ci aiuta a commentare i dati e a interpretare i segnali contrastanti di ecosistemi informativi molto complessi.

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I content creator più visti dagli intervistati negli Stati Uniti. Grafico: Digital News Report 2025.

News che resistono

L’informazione sui social ha subito un incremento, spesso denominato effetto Trump – e dovuto, quindi, alle notizie riguardanti l’attuale presidente degli Stati Uniti –, che si è poi stabilizzato.

In generale, un terzo del campione di intervistati ha dichiarato di informarsi su Facebook, seguito poi da YouTube, Instagram e Whatsapp.

Meno di un quinto usa X, su cui però sono transitati molti uomini dopo l’acquisizione da parte di Elon Musk.

“Mi aspettavo l’ascesa di TikTok, poi confermata. Rispetto a X, invece, ci aspettavamo un abbassamento del grado di coinvolgimento della piattaforma, ma la situazione è rimasta tutto sommato invariata anche dopo il passaggio di proprietà a Musk”, sottolinea Satta.

I video si confermano in rapida crescita e in grado di erodere tanto il mercato della televisione quanto quello delle radio.

“Il fenomeno esiste, ma resta complessivamente di nicchia ed è rivolto a un pubblico che cerca di ottimizzare i tempi ed evitare di restare all’oscuro di alcuni eventi importanti. Non esagererei questo impatto, soprattutto in Italia dove l’ambiente demografico è fatto di pochi giovani e molti adulti e anziani”.

In effetti, i canali nazionali – tra tutti la Bbc, ma anche quelli nel nostro Paese – si mantengono come punto di riferimento principale, soprattutto per attestare la veridicità delle notizie.

“La motivazione principale dietro l’utilizzo di X è cambiata”, aggiunge.

“Non è più l’informazione, quanto magari l’attesa di exploit da parte del suo iconico proprietario. Residuali sono anche i concorrenti Threads e Bluesky”.

L’esodo auspicato da alcuni liberali e giornalisti si è “trasformato in un piccolo gruppo di lurker, persone che non producono contenuti ma restano a monitorare la situazione.

Non esiste, però, nessuna formula in grado di replicare a tavolino fenomeni come l’ormai celebre e influente podcast condotto da Joe Rogan.

E poi, se il famoso giornalista francese Hugo Décrypte ha un numero di follower che fa invidia ai network nazionali storici, è anche vero che solo un quinto dei giovani francesi dichiara di aver guardato un suo video nell’ultima settimana.

Digital News Report 2025 Mediatrends

Le minacce alla credibilità dell’informazione, secondo gli intervistati. Grafico: Digital News Report 2025.

Editori, coraggio e persistenza

I gruppi editoriali se la cavano, ma navigano a vista.

I risultati del Digital News Report 2025 li incoraggiano a investire per lo sviluppo di proprie app – che, però, abbia un sistema di notifiche non troppo elevato e invadente – e in propri canali video o podcast.

Esistono esempi di produzione indipendenti, come il podcast britannico The Rest is Politics, che hanno avuto un successo inatteso con budget relativamente contenuti.

Non si può però costruire un modello di business interamente sulla base di pubblicità e sponsorizzate: l’obiettivo di lungo termine deve essere la traduzione dei tassi di lealtà e fiducia in sottoscrizioni digitali.

Infatti, gli abbonamenti sono ancora generalmente stagnanti, con un picco nel Nord Europa di persone disposte a pagare per informarsi.

Mentre l’erosione del traffico da parte dell’IA tiene svegli gli editori, i chatbot – soprattutto ChatGpt – sono usati da un 7% come fonte di informazione.

Al contrario, l’IA può essere un buono strumento per personalizzare i contenuti o crearne di fantasiosi. Ma anche su questo punto, i timori degli intervistati non sono da ignorare.

“Le piattaforme che ti permettono di disintermediare e mostrare il metodo di lavoro dovrebbero aiutare in questo senso. Paradossalmente, l’IA è un’opportunità per esercitare la pratica di verifica e comunicazione trasparente”, commenta Satta.

Il vero pericolo potrebbe essere che i giornali investano sempre più in automazione, titoli sensazionalistici, sponsorship che ne minano l’imparzialità.

Il reale punto critico è che il 32% degli intervistati attribuisce una responsabilità della qualità dell’informazione ai giornalisti, percezione che aumenta in paesi con democrazie fragili o regimi di transizione e autoritari.

Senza la pretesa di creare incontestabili ministri di verità – o peggio di volersi trasformare in giornalisti-influecer – la difficoltà di creare un legame di fiducia è forse il vero punto su cui i professionisti devono lavorare per i prossimi anni.

“La crisi di fiducia nella professione è inequivocabile. È importante che i giornalisti imparino a comunicare e comunicarsi come figura professionale”.

E possono farlo soltanto se avranno anche testate coraggiose e responsabili alle spalle, in grado di investire su inchieste e lavoro di costruzione e indagine sul campo.

Politici-influencer

Donald Trump è protagonista indiscusso del palinsesto dell’informazione internazionale e il fenomeno dei politici-influencer è stato sicuramente acuito dai social media.

“Il populismo è uno stile comunicativo, non è certo Trump ad aumentarlo.  Come gli altri comunicatori populisti, si nutre della sensazione di distacco e la percezione di abbandono da parte della politica”.

Ma sono due le questioni cruciali, che rischiano di passare inosservate nella lettura rapida del report.

Innanzitutto, la differenza nel rapporto con l’informazione a seconda che ci si auto-collochi a destra o a sinistra dello spettro politico.

Solitamente, i conservatori tendono a effettuare in misura minore il fact-checking e a non diversificare le proprie fonti.

“Non so perché continuiamo ad aspettarci così tanto dal fact-checking. Di solito, chi ha l’istinto di mettere in dubbio, di porre in discussione, sono persone già vaccinate contro le fake news”.

Ancora più cruciale è il tramonto del giornalismo locale, perché se la politica è gestione della cosa pubblica, e non solo propaganda, questa parte proprio dalla prossimità dei luoghi.

Invece, le testate locali stanno scomparendo e sui social si cercano soltanto informazioni per eventi o cronaca nera.

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Foto: Canva.

Paradosso italiano

Il panorama rivela tutta la complessità del panorama, in cui non è possibile offrire soluzioni semplici o univoche.

Se gli under 35 sono spinti a cercare risposte in chi avvertono come “vicino” a sé, perché sembra irreversibile la crisi del giornalismo locale?

Oppure, mentre gli influencer sono percepiti come una minaccia alla verità, al contempo sono tra le prime risorse a cui – soprattutto i giovani – fanno riferimento per verificare la veridicità di un fatto.

C’è poi un paradosso italiano.

“In Italia siamo fermi. Siamo scettici, poco inclini all’innovazione. Gli intervistati non si erano posti neanche troppe domande sull’IA, se non i più giovani e informati che ne vedono le potenzialità”, evidenzia Satta.

Allo stesso tempo, questa tendenza a cercare conferma orizzontalmente e non su fonti ufficiali, è particolarmente frequente proprio in quei Paesi e in quei giovani pubblici che hanno ricevuto una formazione specifica, cioè la media literacy.

“C’è un filtro di selettività molto potente. Se cado nella disinformazione, è perché non ho l’istinto o l’attitudine a cercare una controprova, figuriamoci a cercarla nel fact-checking”.

Eppure, il cambiamento che ne deriva impatta sulla vita quotidiana dei cittadini.

La rivoluzione dello spazio informativo pubblico è molto più grande e riguarda la diffusione capillare degli strumenti digitali nelle abitudini degli utenti, con effetti sulla loro gestione del tempo e dell’attenzione.

A questo proposito, quasi un partecipante su due della ricerca dell’istituto britannico dichiara di essere sopraffatta dal carattere negativo delle informazioni, e soprattutto di quelle politiche.

“Nello specifico, esiste un paradosso tutto italiano. C’è un crollo verticale dell’interesse nelle notizie, però le persone ne fruiscono e si registra meno news avoidance, cioè evitamento dell’informazione”, sostiene Satta.

Come scrive Aldous Huxley nel suo romanzo Il mondo nuovo: “Come sarebbe bello se non si dovesse pensare alla felicità”.

Il grande cambiamento sta nella disposizione rispetto alla difficoltà, al dissenso e alla fatica.

“Ai giornalisti consiglio di considerare l’ecosistema digitale come il fratello estroverso dell’informazione. L’ambiente comunicativo e quello informativo sono indissolubilmente legati, ma la notizia deve prevalere, anche se è più difficile far parlare il fratello più intimo e introverso”.

Uno sforzo che va fatto collettivamente, “to keep humans in the loop” come scrivono da Reuters.

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Ludovica Taurisano è dottoranda di ricerca in Global History and Governance per la Scuola Superiore Meridionale di Napoli, con un progetto di ricerca sull’editoria popolare e l’informazione politica negli anni Sessanta e Settanta. Con una formazione in teoria e comunicazione politica, si è occupata di processi di costruzione dell’opinione pubblica; ha collaborato con l’Osservatorio sulla Democrazia e l’Osservatorio sul Futuro dell’Editoria di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Oggi è Program Manager per The European House – Ambrosetti. Scrive di politica e arti performative per Birdmen Magazine, Maremosso, Triennale Milano, il Foglio, Altre Velocità e chiunque glielo chieda. Ogni tanto fa anche cose sul palco.