
Foto copertina: Alberto Mingardi, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università Iulm di Milano.
Longeva, acciaccata dal passare degli anni, ma capace di adattarsi a un mondo in cui non ha più la centralità che aveva un tempo. La televisione – soprattutto quella italiana – è come il rock’n’roll: è destinata a rimanere. Nonostante tutto.
O perlomeno, è così che la vede Alberto Mingardi, politologo e professore di Storia delle dottrine politiche all’Università Iulm di Milano.
“Quando sopraggiunge un nuovo mezzo di informazione, non è detto che quello precedente debba scomparire. Un esempio lampante è la radio”, dice a Mediatrends Mingardi, che a un passaggio storico – e a volte sottovalutato – per la tv italiana, i referendum abrogativi del 1995 per la modifica della legge Mammì sull’assegnazione delle frequenze e l’abolizione delle pubblicità televisive, ha dedicato il suo ultimo libro, intitolato Meglio poter scegliere. I referendum del 1995 e la battaglia per la televisione commerciale.

Il centro di produzione Mediaset a Cologno Monzese, nella città metropolitana di Milano. Foto: Wikimedia Commons.
Oltre la contrapposizione politica fra l’area berlusconiana e progressista, incarnata in primo luogo dal Partito democratico della Sinistra – Pds – il docente analizza il valore sociale di quella stagione referendaria, sostenendo che i cittadini italiani abbiano votato in maggioranza per bocciare le proposte non per ragioni ideologiche, ma per conservare il proprio diritto a scegliere cosa vedere in televisione.
Una de-politicizzazione dei quesiti che, ricorda Mingardi nel libro, Federico di Chio e Carlo Momigliano – allora i due giovani dirigenti di Fininvest incaricati della strategia comunicativa del gruppo sul referendum – hanno utilizzato proprio per la campagna di avvicinamento al voto, spingendo lo stesso Silvio Berlusconi a non intervenire sul tema e lasciando ai volti noti di Mediaset l’opera di convincimento nei confronti del pubblico.
Il piano era chiaro: il cittadino doveva percepire l’impatto di un’eventuale vittoria del Sì sulla propria dieta televisiva quotidiana, in primo luogo sulla più ampia scelta dei film da vedere la sera.
La politica, sostenevano, per una volta non c’entrava.
O, in termini più spicci, dato il passato monopolistico di una Rai che, dopo l’avvento del concorrente privato, faceva fatica a distanziarsi dal prototipo di tv commerciale e ridefinirsi con un’offerta caratteristica, la prevalenza dei No può essere interpretata come un rifiuto di ritornare a un passato perfino meno felice di un presente già insoddisfacente.
Quando l’esito di un voto premia chi la pensa in maniera diversa, il mondo centrista e progressista tende a dare la colpa ai media – allora le tv private di Mediaset, oggi social e podcast. È un modo per evitare la responsabilità della sconfitta?
È una chiave di lettura del libro. Ogni volta che appare un nuovo mezzo di informazione, si presume che abbia una capacità straordinaria di manipolare le scelte individuali. È un pensiero che inizia già negli Stati Uniti negli anni ‘2o e ’30 del ‘900, con l’avvento della radio. Questo ragionamento presume che soltanto il nuovo di turno sia in grado di influenzare le persone. Solo la radio e non le gazzette prima, solo la tv e non la radio poi, solo i social media e non la tv generalista oggi. Mi sembra, in larga misura, una scorciatoia che, nel caso dei referendum del 1995, assume tratti ancora più curiosi.
Perché?
Perché i promotori del Sì avevano assunto un atteggiamento auto-assolutorio già durante la campagna prima del voto: se dovessimo vincere sarà stato merito nostro, se dovessimo perdere, sarà stata colpa di Berlusconi, che può contare sul megafono delle sue reti. Eppure, è proprio Berlusconi che, negli anni ’80, depoliticizza la televisione. Punta sull’intrattenimento perché, essendo una tv commerciale, ha bisogno che il maggior numero possibile di persone veda quei programmi per vendere la pubblicità adatta. Questo significa dare alla gente quello che desidera, anziché quello che è bene che guardi.

Alberto Mingardi è tra i cofondatori dell’Istituto Bruno Leoni, attivo dal 2003.
La Rai poteva evitare di giocare sullo stesso terreno e iniziare a fare servizio pubblico indipendente, nel modello spesso richiamato della Bbc.
La Rai ha il monopolio dell’informazione per tutti gli anni ’80. È proprio la legge Mammì che, per certi versi, consente a Mediaset di inaugurare i propri telegiornali. Nonostante il concetto di programma di qualità sia molto sdrucciolevole e trasmissioni che dapprima sembrano trash poi diventano di culto, con la diffusione della tv commerciale la Rai ha scelto di differenziarsi soltanto limitatamente.
Come spiega questa scelta?
Con una dinamica simile a quella del referendum del 1995.
Cioè?
La Rai nasce a metà degli anni ’50 e il suo monopolio non viene sfiorato nei decenni a seguire e, anzi, è consolidato fino alla fine degli anni ’70 da alcune sentenze della Corte costituzionale. La prima prova di concorrenza arriva grazie ai ripetitori che, prima soltanto in aree di confine e poi anche nel resto d’Italia, iniziano a mostrare programmi esteri, come Telemontecarlo, Tv Koper-Capodistria e la Radiotelevisione della Svizzera italiana. Ma neppure l’avvento di nuove emittenti spinge la dirigenza della Rai a rinnovare la propria offerta.
A questo proposito, lei ha parlato della differenza tra i politici in tv e i politici che si occupano di tv.
Per la classe politica, la Rai era ed è uno straordinario veicolo di consenso. Resta importantissima anche oggi, sebbene i partiti siano ben più deboli. E, a volte, le persone più giovani tendono a pensare che la figura del politico che si occupa di televisione nasca negli anni ’90 con il successo di Berlusconi, ma non è così. È dagli anni ’60 che in Italia esiste un certo numero di esponenti la cui specializzazione è proprio dedicarsi alla tv. Ed è così che la Rai è diventata una specie di Disneyland dei partiti.
Il caso del referendum del 1995 calza di nuovo bene per raccontare le strategie politiche a difesa dello status quo della Rai.
È l’applicazione della stessa logica: nonostante i fautori del Sì sostenessero di voler togliere due reti a Mediaset per aumentare la presenza di altri privati sul mercato delle frequenze, gli italiani avevano capito che obbligare l’unico vero competitor a cedere una parte così rilevante delle proprie reti avrebbe soltanto indebolito la concorrenza. Non c’era la volontà di un disarmo bilaterale per favorire l’entrata di nuovi attori. Si era invece stabilito che il numero delle frequenze fosse dato e non ampliabile e si perseguiva un duplice disegno: colpire la tv commerciale, considerata qualcosa di culturalmente dannoso, e danneggiare un avversario politico.
L’evoluzione tecnologica avrebbe superato l’assunto della scarsità delle frequenze. Oggi, 30 anni dopo, la televisione in Italia si difende meglio che in altri Paesi dall’offerta infinita di social e new media. È solo questione di tempo per la fine della tv?
Non so prevedere il futuro, ma userei molta cautela prima di decretare la morte della televisione.

Foto: Unsplash.
Cosa glielo fa dire?
Tre aspetti. Il primo è il fattore demografico. Siamo tutti abitudinari e, superata una certa soglia d’età, tendiamo a mantenere le stesse abitudini, compresa vedere la tv, per chi è avvezzo a farlo. A questo si lega il cosiddetto effetto legacy, secondo il quale certe consuetudini si tramandano, in questo caso contribuendo a conservare la rilevanza del mezzo: il Tg1 non ha la stessa centralità di un tempo, ma viene ancora oggi percepito come una fonte di informazione autorevole. Il secondo elemento, invece, sta in una delle più evidenti debolezze della televisione, che in realtà rappresenta un segreto della sua longevità.
Quale sarebbe?
Il fatto di essere il mezzo di informazione meno invasivo. Moltissimi, in casa o in ufficio, non prestano attenzione a una tv che, però, nel frattempo resta accesa e a cui ogni tanto buttano l’occhio. A differenza di un articolo di giornale o di una conversazione in un podcast, richiede molta meno attenzione. È un ulteriore effetto di trascinamento destinato a rimanere.

Foto: Unsplash.
Manca il terzo punto all’appello.
Negli anni ’90, molti avevano sposato la tesi per cui il dominio dell’immagine, coinciso con l’affermarsi della televisione, fosse destinato a cedere il passo al ritorno del messaggio di testo, dettato da quello che allora era Internet: una faccenda di parole.
Difficile sostenerlo oggi.
La situazione è cambiata in maniera vistosa: ora i formati sono perlopiù video. YouTube non è un’emittente come Canale 5, però certi social media ne hanno mutuato alcune caratteristiche. TikTok, ad esempio, somiglia molto a un broadcaster e vive anche di contenuti che sono stati già mandati in onda in altri luoghi proprio dalle reti televisive.
YouTube non è un broadcaster, non è un produttore, ma si vede in tv.
Con le smart tv la fruizione di contenuti si sovrappone e si mescola. È il punto in cui siamo oggi e anche per questo le notizie sulla fine della televisione sono premature. E, comunque, occorre sempre guardare alla storia: quando sopraggiunge un nuovo mezzo di informazione, non è detto che quello precedente debba scomparire.

La scultura del cavallo in bronzo all’ingresso della sede Rai in Viale Mazzini, a Roma, opera dello scultore Francesco Messina. Foto: WordPress.
Parla della radio?
Sì, la radio è un evergreen e un esempio lampante e utile. Nonostante l’avvento dei più moderni concorrenti, forse oggi è diventata perfino più importante dal punto di vista politico. Certo, nel caso della televisione generalista, la quota di mercato continua ad assottigliarsi e le rispettive aziende dovranno capire come affrontare questa tendenza.
In che modo?
Adattandosi. Così come in passato si riteneva che l’unica fonte di sostentamento della tv privata fosse la pubblicità, per poi constatare che ci si può mantenere molto bene anche tramite la formula dell’abbonamento.
Se la tv resterà, nei prossimi anni quale sarà il suo rapporto con i nuovi media e le piattaforme che li ospitano?
Forse, non è poi così folle e inimmaginabile pensare a una forma di coabitazione di questi mezzi d’informazione.