
Alessio Cornia, professore associato alla Dublin City University e Research Associate al Reuters Institute dal 2016, ha promosso e curato la seconda edizione di approfondimento Digital News Report Italia 2025, redatta in collaborazione con il master in giornalismo di Torino.
I risultati mettono in risalto alcuni tratti peculiari di lunga data del settore dell’informazione italiano, come il ruolo rilevante della televisione, pur delineando un panorama in costante evoluzione.
A differenza dei Paesi di lingua e tradizione giornalistica anglosassone, in cui a testate ed emittenti blasonate si accompagna la presenza – ben distinta – di tabloid, nel bel Paese i quotidiani “nascono per un pubblico elitario, guardando, usano un linguaggio molto difficile. Enzo Forcella”, ricorda Cornia a Mediatrends, “diceva di aver sempre scritto per 150 lettori, cioè i ministri di turno e i portaborse”.
Per questi e altri motivi, il docente considera il caso italiano un “laboratorio di studi” d’eccezione – dalla sua storia, nel corso del ventesimo secolo, fino a oggi – e ha deciso di occuparsi della prima versione dello studio di Reuters incentrata sull’Italia.
Perché ci teneva così tanto, professore?
Molti altri Paesi hanno un approfondimento del famoso report globale, a cui collaboro da quasi dieci anni. Ho sempre creduto che l’Italia fosse un laboratorio di studi eccellente, pieno di peculiarità e contraddizioni. Molti altri Stati hanno un team che adotta il metodo Reuters per studiare i propri dati, così anche io desideravo un punto di vista privilegiato, quello del Reuters Institute, per guardare al caso italiano, combinando metodo accademico e approccio divulgativo.
E cosa ha scoperto sul sistema giornalistico italiano?
Come prevedibile, il nostro sistema mediale sconta un passato caratterizzato dal predominio del mezzo televisivo. Ma in Italia c’è sempre stata una newspaper readership, cioè un livello di diffusione dei quotidiani della stampa scritta, particolarmente basso, più basso rispetto a molti altri paesi con consumo televisivo superiore.
E il basso livello di diffusione della stampa scritta dipende dal tasso di alfabetizzazione?
Non solo. Di certo, a una bassa alfabetizzazione tradizionale ne corrisponde anche una mediatica, ma anche i giornali hanno fatto la loro parte. Nascono per un pubblico elitario, guardando con disprezzo ai tabloid di stampo statunitense, usano un linguaggio molto difficile. Enzo Forcella diceva di aver sempre scritto solo per 150 lettori, cioè i ministri di turno e i portaborse.
Dunque, questo legame stretto tra media e politica è un connotato italiano?
Il nostro giornalismo è sempre strato molto partigiano, perché intervenire nel dibattito politico dava valore. A prescindere dalle linee editoriali, i giornalisti hanno sempre ritenuto di voler, e di dover incidere politicamente, portando un cambiamento a seconda della propria visione soggettiva e ideologica.
E le conseguenze di questo giornalismo partigiano?
Chiaramente, minore fiducia nel giornalismo stesso, percepito come polarizzato o di parte. Di conseguenza, scarsi profitti e costante necessità di supporto esterno per la nostra stampa, ossia finanziamenti da parte dello Stato, ad esempio, in un contesto già segnato da clientelismo e basso universalismo.
Ma non siamo più la Repubblica dei partiti, citando Pietro Scoppola. Le cose non sono cambiate?
Il fenomeno Silvio Berlusconi non è arrivato in un vuoto. Come lui ci sono oggi, ad esempio, Antonio Angelucci, cioè l’ennesimo imprenditore che entra nell’agone mediatico per acquistare imprese giornalistiche pur sapendo che non trarranno profitto dalle testate. Lo fanno perché gli interessi in gioco riguardano altri settori, e il giornalismo consente di fare un “lobbying all’italiana”. Siamo nel pieno della cosiddetta editoria impura, ancora.
Questo contribuisce ad allontanare i lettori, soprattutto dalle notizie politiche?
La situazione attuale denota scarsa fiducia e interesse in calo. Nel 2016, a livello temporale relativamente vicino, il 74% di intervistati dichiarava di essere estremamente o molto interessato alle notizie. Nel 2025 la percentuale è scesa al 39%. Il reach di ogni testata ha avuto un calo di pubblico, online o cartaceo e anche se si tratta di progetti tarati per tutti e con linguaggio più semplice.
Ci saranno delle eccezioni.
Nel Digital News Report Italia si segnala il caso di Fanpage, nativo digitale, ma anche del Post. In particolare quest’ultimo raggiunge un picco di pubblico dell’11% sotto gli under 35, percentuale che scende al 6% per il pubblico generale. Ma è un caso interessante perché il Post ha puntato sulla membership e sta andando bene per quello. E anche perché fa gli spiegoni, cioè non presenta mai un articolo che non sia contestualizzato e comprensibile a chiunque. E non ha una connotazione ideologica esageratamente marcata, anche se di stampo progressista.

L’interesse per le notizie di politica in Italia. Grafico: Digital News Report Italia 2025.
Restando su questi casi studio di successo, ritiene che Will Media, ora di Chora News e registrato come testata, faccia giornalismo?
Will Media è interessante come il Post perché è di successo tra i giovani, esattamente il pubblico che i giornali non riescono a raggiungere. I contenuti sono distribuiti, multipiattaforma. Ha testimoniato che il mantra di portare le notizie dove stavano gli utenti – di cui si parlava già nel 2015 – funziona. Will Media si affida anche a giornalisti i cui volti diventano poi riconoscibili, e questo genera fiducia dentro un contenitore che ibrida la notizia con l’intrattenimento. Un approccio che però, ribadisco, ha un impatto irrisorio sopra i 35 anni.
Il gruppo Cairo e Gedi, invece, raggiungono il 34% delle copie vendute annualmente. Non è un buon risultato?
Lo è ma consideri che una persona su dieci ha dichiarato di leggere settimanalmente questi giornali. E tornando ai casi precedenti, solo il 9% degli intervistati ha dichiarato di avere una membership digitale per le notizie.
Perché sono ancora difficili da leggere?
Sono tanti i motivi di distacco rispetto al giornalismo tradizionale e generalista. Il modello è entrato in crisi e gli editori stanno ancora aggiustando il tiro, magari tornando a una linea editoriale marcata in senso originario – come per Repubblica, o cominciando a evitare i titoloni strillati, scriviamo nel Digital News Report Italia. Ma non è tutta responsabilità degli editori. In Italia le iniziative di media literacy sono molto scarse rispetto agli altri paesi. Abbiamo tanti giovani – e non solo – con buoni livelli di istruzione, ma la partecipazione a queste iniziative è molto bassa.

Le fonti di informazione usate nella settimana precedente alla data dell’intervista, in Italia. Grafico: Digital News Report Italia 2025.
Non è un buon segnale.
Il panorama mediatico sta cambiando in maniera molto rapida, basti pensare a quanto accaduto con la moderazione dei contenuti.
Parla del fact-checking?
Non proprio. Parlo delle linee guida di moderazione dei contenuti sulle piattaforme online. Ho molti colleghi che fanno questo mestiere e hanno visto modificare il proprio metodo di lavoro per volontà dei proprietari delle piattaforme. E, di conseguenza, hanno constato una crescita dei contenuti offensivi e dannosi, episodi di cyberbullismo e fake news.
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha un ruolo in questo?
C’è innanzitutto un tema di riduzione dei costi, perché le risorse umane per la moderazione sono state tagliate in modo drastico. C’è poi un vento ideologico diverso, ma non è solo statunitense.
E il giornalismo americano è in salute?
Almeno fino a quindici anni fa, le migliori scuole di giornalismo si trovavano negli Stati Uniti. Il modello del giornalismo watchdog, cane da guardia della democrazia, ha fatto scuola per i giornalisti di tutto il mondo per le sue caratteristiche di obiettività e distacco dalle parti politiche. Il sistema è cambiato, ma ben prima di Trump.
Nel 2020 lei ha pubblicato un articolo che misurava la polarizzazione dei pubblici delle testate giornalistiche in vari Paesi. Cosa ha scoperto?
Proprio che gli Stati Uniti aveva il sistema mediale più polarizzato in assoluto, e questo nonostante le diverse caratteristiche del suo giornalismo.
Proprio dall’America arrivano i maggiori fenomeni mediatici oggi. Penso a tutti gli opinionisti che si trasferiscono su Substack o ai vodcaster come Joe Rogan. È la frontiera dell’informazione internazionale questa?
Substack e Vodcast sono, come Will Media, un modello di informazione distribuita, per questo funzionano. E anche perché legano sempre al contenuto una forte personalizzazione. In Italia se dovessi puntare su qualcuno che potrebbe farcela, sul modello di Rogan, penso a Selvaggia Lucarelli, che fa un lavoro commerciale, con un approccio più televisivo, ma di successo.

Il livello di fiducia nelle notizie provenienti da testate giornalistiche, in Italia. Grafico: Digital News Report Italia 2025.
Esiste una regola per il successo?
A qualcuno andrà bene, ad altri no, è imperscrutabile. Per questo anche i giornali non dovrebbero puntare troppo su qualche formula magica, valutando quali sono i costi e i ricavi di puntare su volti così noti. Il singolo individuo, per produrre contenuti non può impiegare una redazione intera. E poi questa scommessa deve sempre avere come fine ultimo quello di avvicinare alla piattaforma editoriale. Invece il rischio è che si segua solo la persona.
Sempre dagli Stati Uniti arrivano notizie di accordi tra importanti testate e aziende di intelligenza artificiale. Dovremo adeguarci anche noi o possiamo rassicurare gli editori?
L’IA può essere usata in modi più o meno virtuosi e alcuni di questi non sono una novità. France Television usava l’IA per targettizzare le notizie su pubblici locali già dieci anni fa, per cui se risiedevi in un quartiere parigino specifico, potevi trovare la notizia che ti riguardava con commenti e opinioni. Ci sono rischi ma anche potenzialità, in generale per tutto il settore della comunicazione. Molto dipenderà dal rapporto che gli editori stabiliranno con le tech corporation, che però non hanno alcun interesse a mettersi a un tavolo di dialogo né politico, né con editori minori.

Le visualizzazioni dei podcaster statunitensi per fascia d’età nella settimana precedente alla data dell’intervista. Grafico: Digital News Report 2025.
Come se non bastasse, ci sono delle questioni, anche legali, sulla funzione Google Search e le conseguenze per le visite ai siti di informazione.
Lascio ai giuristi la valutazione, ma per ora è una funzione preoccupante perché erode un traffico già risicato. Sempre meno si dovrà contare sulle pubblicità e sempre di più sugli abbonamenti.
Consigli per i giornalisti del futuro?
In ottica sistemica, dovranno affrontare molta frammentazione, con tante fonti informative diverse che si rivolgono a pubblici di nicchia. I giornalisti si misureranno con rapporti di fiducia molto singolari e personalizzati, quindi con un panorama estremamente polarizzato e targettizzato. Serve mantenere, nonostante tutto, uno standard professionale rigoroso, che riveli il metodo puntuale della ricerca delle fonti, che mostri lo studio, l’approfondimento, la conoscenza del tema.
La sua dieta mediatica?
Al mattino Bbc, New York Times, Repubblica e Thejournal.ie. Guardo un canale di informazione irlandese in televisione, ascolto Radio Rai, pochissimi podcast. Ma confesso che prima trovavo il tempo al mattino di leggere per un’ora le notizie. Poi con la vita familiare e il lavoro ho smesso e la mia sensazione di essere informato è molto diminuita. Scrollo notizie durante il giorno, online, magari parlo con i colleghi di alcuni sviluppi legati all’attualità, ma ho proprio la sensazione di perdermi le cose. Senza quella routine mattutina, la mia conoscenza è parziale.