Foto di copertina: Aristotele, autore de La retorica, che fa una diretta Instagram. Immagine creata con Sora.
Ci stiamo abituando ai politici che fanno uso manifesto dei nuovi media, ma cosa succede se gli influencer fanno propaganda in modo meno esplicito?
Cambridge e Harvard hanno pubblicato uno studio condotto su oltre 4000 americani tra 18 e 45 anni, i cui risultati sono stati condivisi con Wired US in anteprima.
David Gilbert, commentando i risultati del report, ha scritto che gli influencers politici più potenti sono proprio quelli che non postano contenuti esplicitamente politici.
Non Joe Rogan o Theo Von, a cui anche parzialmente si attribuisce la vittoria del presidente Donald Trump, ma una sfera di creators, anche più di nicchia, che con la politica – almeno apparentemente – non c’entrano niente.
I risultati dello studio
Alla luce dei risultati dello studio, anche il mantra di Steve Bannon, la mente della prima ora dietro la comunicazione di Trump, sembra avere un potenziale ancora non colto a fondo dai commentatori.
Quando Bannon parla di “inondare l’area”, non intende soltanto l’infosfera per come l’ha raccontata Luciano Floridi, cioè come ambiente informazionale.
È tutto l’universo comunicativo che viene progressivamente occupato, di contenuti in apparenza non partigiani o propagandistici, ma che instillano un senso di identità collettiva più profonda.
I ricercatori delle due università hanno assegnato a un campione degli intervistati una lista di content creators da seguire, non affiliati con una specifica parte politica.
Ciononostante, l’esposizione ai loro contenuti ha generato nel gruppo che li ha seguiti, una maggiore consapevolezza dei fatti politici, ma anche uno spostamento a sinistra rispetto al bipartitismo statunitense.
Il gruppo placebo che non ha ricevuto assegnazioni, e che è stato dunque lasciato libero di scrollare sui social, si è invece avvicinato all’universo Maga.
Il vero esercito trumpiano è dunque formato da accoliti che creano un immaginario, una cultura repubblicana, riempiendo tutti gli spazi: non informativi o politici, ma comunicativi.

La University of Cambridge. Fonte: Flickr.
I repubblicani hanno capito tutto
Samuel Woolley, dell’Università di Pittsburgh, avverte che questi influencer sono più potenti dei media tradizionali.
Anche se non parlano apertamente di politica, gli influencer fanno propaganda e sono destinati a influenzare prepotentemente le elezioni del 2028.
Le campagne elettorali sono diventate permanenti da ben prima dell’avvento dei social media, e cioè dal crollo del cosiddetto voto ideologico o di appartenenza, soppiantato da un voto più “volatile” e dunque conquistabile attraverso un sapiente marketing elettorale.
L’evoluzione dei comportamenti di utilizzo delle infrastrutture digitali ha richiesto un aggiornamento importante dei paradigmi interpretativi della comunicazione politica, alcuni dei quali restano però dei pilastri.
Ad esempio, il tradizionale “modello mediatico” delineato da Giampiero Mazzoleni, in contrapposizione a quello dialogico-pubblicistico, stabilisce che l’interazione tra cittadini e politici avviene proprio dentro il sistema dei media, che coincide in tal senso con l’intero spazio pubblico.
Ma il sistema dei media è costituito da tutti gli emittenti e produttori di messaggi, dall’intrattenimento all’informazione tradizionale.
I repubblicani perciò avrebbero vinto una battaglia sulla base della quantità dei messaggi emessi?
Il sottile confine tra persuasione e propaganda
Secondo John Marshall, che insegna scienza politica alla Columbia University, i repubblicani hanno investito nelle relazioni parasociali che i content creator creano con la base.
L’aggettivo “parasociale”, parola dell’anno per il Cambridge Dictionary, è la tendenza ad estendere affezione familiare e amicale a perfetti sconosciuti.
Non è un fenomeno nuovo: si pensi a “Lo sceicco bianco” e alla relazione amorosa e divistica tra Wanca Cavalli e Fernando Rivoli.
Con i social media, la definizione stessa di “popolarità” si è diluita, e con il perfezionamento della tecnologia, anche l’illusione di vicinanza si è fatta più intensa.
Per questo gli influencer che non parlano di politica hanno un potenziale enorme di impattare sui comportamenti dell’audience.
Se la politica è un tema in principio divisivo e che genera disaffezione e sfiducia, è su altri argomenti che è strategico investire per creare un rapporto di autenticità e vicinanza.
Conseguenze pratiche
Nella teoria politica classica, quelle fondate sulla fiducia, il giudizio collettivo e la persuasione, altro non sono che forme spurie di autorità.
Questo significa essenzialmente che gli influencer fanno propaganda solo se i singoli attribuiscono alle loro parole un’autorevolezza.
Più praticamente, significa che le scelte di voto si basano sempre meno su argomentazioni razionali – programmi elettorali, risultati ottenuti, validità dei candidati – e sempre di più su una forma di empatia, di vicinanza emotiva, di senso di appartenenza a un universo narrativo.
Per gli spin doctor, il lavoro si fa allo stesso tempo semplice e complesso.
Se è vero che i codici deontologici del giornalismo non si applicano ai content creator, è anche vero che non è chiaro quanto i comunicatori repubblicani abbiano realmente coltivato i rapporti con i content creator e quanto consapevolmente abbiano fornito del materiale de facto propagandistico.
Inoltre, la linea di confine tra propaganda e persuasione è sottilissima, ed è molto scivolosa per i content creator che non vogliono essere identificati con una parte politica.
La sottrazione della fiducia (dunque del conferimento dell’autorità) è un processo che può essere anche molto repentino, soprattutto in un tempo di pensiero, non solo di voto, volatile.
Se tutto sta diventando comunicazione politica, rendersi immuni alla persuasione a buon mercato è forse un buon proposito.
E come la Anne nella Persuasione di Jane Austen, renderci conto di aver fatto “grande sfoggio di eloquenza su un punto in cui sarebbe stato difficile fare un esame di coscienza”.




