Perché i quotidiani perdono soldi ma attirano ancora investitori

Di il 13 Dicembre, 2025
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Il caso Gedi mostra come l’editoria abbia smesso di essere un business, senza smettere di contare politicamente

La vendita di Gedi, con Repubblica e La Stampa, da parte di Exor è una vicenda paradigmatica per l’editoria italiana e per l’evoluzione del settore informativo, che si presta a molteplici letture sia industriali che politiche.

Al momento è partita una trattativa in esclusiva con l’editore greco Antenna guidato da Theo Kyriakou che si propone di acquisire per 140 milioni di euro tutte le attività del Gruppo Gedi, compreso il quotidiano La Stampa a cui ha dichiarato di non essere interessato.

Per quella testata esiste anche l’interesse del Gruppo Nem, un gruppo editoriale di testate locali nel triveneto che ha già acquistato in passato alcune testate dal gruppo Gedi.

Theo Kyriakou. Fonte: Professione Reporter

Infine, qualche giorno fa Leonardo Maria Del Vecchio ha rilanciato, con un articolo sul Sole 24 Ore una proposta d’acquisto per il Gruppo Gedi con un’offerta da 140 milioni di euro, dichiarando di avere un’idea industriale a lungo termine e di voler difendere testate storiche italiane.

Quello che emerge comunque è come i quotidiani, pur essendo calati per vent’anni e pur essendo in una situazione economica molto difficile, suscitano interesse tra potenziali investitori perché, nonostante le poche copie vendute, continuano a dettare l’agenda del dibattito politico in modo spropositato rispetto alle loro dimensioni effettive. I telegiornali con 16-20 notizie per edizione, si concentrano inevitabilmente sugli avvenimenti più importanti.

Gedi viene da un decennio disastroso in cui si sono accumulati errori strategici.

Investito dallo tsunami di internet ha iniziato tra i primi ad esplorare l’edizione digitale, ma non ha saputo ristrutturare le redazioni e i processi di produzione delle notizie, limitandosi ad ottenere pensionamenti agevolati, anche per non impegnarsi in scontri sindacali.

Aveva un gruppo forte di testate locali, che hanno resistito meglio al declino rispetto a quelle nazionali, ma che non sono state comprese, difese e valorizzate.

La scelta di John Elkann di uscire dall’editoria italiana dopo quasi mezzo secolo è insieme un atto di realismo e un segnale di trasformazione profonda del settore: una presa d’atto che i quotidiani non sono più un asset strategico nel portafoglio di una grande holding globale, e al tempo stesso la conferma che, proprio mentre perdono rilevanza economica, continuano a esercitare un’influenza politica e simbolica che rende ogni passaggio di mano un terreno minato.

Repubblica è sempre stata caratterizzata da un marcato orientamento progressista, tanto che è proprio tra l’opposizione che si sono registrate le voci più preoccupate per un possibile cambio di orientamento.

Le posizioni politiche di Kyriakou sembrano guardare più verso il centro destra e si dice si sia mosso in modo istituzionale attraverso contatti preliminari con esponenti del governo che, almeno dalle prime dichiarazioni, lo guarda con interesse, sperando probabilmente in un addolcimento dell’orientamento marcatamente antigovernativo espresso da Repubblica.

Del resto, sembra esserci un interesse maggiore per le radio del gruppo (DJ, Capital e H2O) che hanno un forte posizionamento sul mercato italiano e la capacità consolidata di produrre utili.

Antenna Group (noto anche come ANT1 Group) è una media company internazionale con sede principale ad Atene, fondata nel 1988/1989 da Minos Kyriakou come braccio mediatico della famiglia Kyriakou, storicamente attiva anche nel settore navale.

Antenna Group gestisce una ampia gamma di attività nel settore dei media e dell’intrattenimento. Il fulcro è rappresentato dalla televisione, con 37 canali TV tra free e pay TV e servizi correlati, e da due piattaforme di streaming proprie, oltre a una vasta presenza nel radio broadcasting, nei media digitali, nella produzione di contenuti, nella musica, nell’editoria, negli eventi live e in iniziative educative e di intrattenimento.

Della controfferta di Del Vecchio si sa poco oltre le dichiarazioni. Da un lato potrebbe essere l’ennesima parabola di un editore impuro che vuole testate influenti per le sue battaglie in altri settori, ad esempio la scalata a Generali.

Ma potrebbe anche essere l’impeto generoso di un italiano ricco che vuole salvare testate storiche cui è affezionato, con un atto un po’ filantropico, e personalmente penso che sia più probabile questa ipotesi. Però l’esperienza nel settore editoriale appare abbastanza limitata e questo potrebbe essere un problema.

Leonardo Maria Del Vecchio. Fonte:REUTERS/Remo Casilli

Almeno per i quotidiani il vero problema è industriale. Negli ultimi dieci anni i quotidiani nazionali hanno perso mediamente il 67% delle copie mentre i quotidiani locali con un calo del 55% hanno mostrato di resistere meglio.

Le testate maggiori hanno in parte recuperato con gli abbonamenti digitali e con il sito dove pubblicano le notizie, ma gli abbonamenti digitali hanno prezzi notevolmente più bassi e la raccolta pubblicitaria dei siti rimane contenuta.

In generale quando un lettore su carta diventa un lettore digitale il giornale perde circa tre quarti dei ricavi. I quotidiani hanno una componente rilevante di costi fissi, indipendenti cioè dalle copie vendute o dal numero dei lettori, costituita principalmente dalla redazione che produce i contenuti.

Questa struttura dei costi consente grandi profitti quando il mercato è in crescita, ma è molto pericolosa quando la domanda è in calo perché impone di adattare rapidamente i costi fissi ai nuovi volumi di tiratura.

Le strutture redazionali dei giornali sono state messe a punto quando le maggiori testate vendevano 6-700mila copie al giorno e, nonostante negli ultimi anni vi siano state riduzioni, la riprogettazione dei processi produttivi è stata molto contenuta. Il mercato pubblicitario non è assolutamente in grado di sostenere testate che spesso hanno redazioni di 2-300 giornalisti con meno di 100mila copie vendute.

Testate con questi risultati hanno la possibilità di remunerare un centinaio di giornalisti. E testate locali possono avere redazioni di 30-40 giornalisti solo se operano in mercati molto ricchi o se operano in diversi mercati controllando anche televisioni, radio e siti locali dove riutilizzano e valorizzano il lavoro delle loro redazioni.

La situazione dei quotidiani è molto difficile, in Italia come nel resto del mondo. E allo stesso tempo nell’ampia galassia digitale non è emerso nulla di paragonabile a quello che sono stati i quotidiani, con la loro capacità di filtrare e organizzare le notizie e la possibilità di realizzare inchieste che hanno consentito di svolgere un ruolo di controllo nei confronti del potere politico.

La domanda e la scommessa dunque diventa quella di capire se è possibile realizzare una testata nazionale generalista con un centinaio di giornalisti, cambiando le modalità produttive, il modello di business e l’insieme dell’organizzazione  del lavoro. È purtroppo una domanda triste e molto difficile cui né gli editori, né i giornalisti sono stati in grado di dare una risposta.

Per trovare una strada occorre avere inventiva, molta conoscenza del settore, grande consapevolezza sulle nuove tecnologie e molta disponibilità a scontrarsi, purtroppo con risultati non garantiti.

Al di fuori di queste strettoie c’è solo il circolo del declino che porta alla chiusura di molte testate, come del resto è avvenuto ai periodici qualche anno fa.

Si vende a un gruppo di testa a un editore più “lontano geograficamente”, spesso con una struttura più leggera, che spera di capitalizzare qualcosa sulla gloria passata dei giornali che acquista. Questo prova a ridurre i costi, ma spesso ha poca esperienza per farlo bene e le speranze vengono disilluse, perché i costi fissi sono anche la principale determinante della qualità. A questo punto cominciano le chiusure, qualche volta passando ad una vendita successiva ad un editore ancora più periferico che quindi fa il lavoro sporco fuori dai riflettori.

John Elkann

Questi vincoli industriali valevano per Elkann e varranno per eventuali acquirenti che siano ricchi italiani come Del Vecchio, o piccole multinazionali europee come ANT1 Group, che infatti non a caso era più interessato alle radio. Non è una questione di volontà, e le eventuali garanzie ottenute sono come parole sull’acqua.

Questa vicenda soprattutto mette a nudo una verità: l’editoria non è più un business, è un campo di battaglia del potere. Chi vi entra oggi non cerca margini industriali, ma influenza, reputazione, capacità di orientare l’opinione pubblica. Se per Del Vecchio era un atto d’amore verso l’Italia, per Kyriakou è un tassello in una strategia ancora da decifrare.

Per l’Italia, resta la domanda più importante: chi controlla l’informazione quando non è più un’industria sostenibile, ma resta un bene essenziale per la democrazia.

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Marco Gambaro
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X: @MaGambaro Marco Gambaro è professore di Economia dei Media presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi di ricerca riguardano le industrie della comunicazione, le piattaforme digitali e le industrie culturali. Ha lavorato come consulente di direzione con i principali gruppi di comunicazione, con organismi di regolamentazione e con grandi aziende italiane ed estere sui temi delle piattaforme digitali, dell'industria televisiva, della pubblicità, dell’antitrust sul mercato della comunicazione.