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Secondo un sondaggio del Pew Research Center, solo il 17% degli adulti americani pensa che l’impatto dell’intelligenza artificiale sul Paese sarà positivo nei prossimi due decenni.
Così, negli ultimi mesi, diverse big tech che si occupano proprio di IA hanno adottato una tattica sorprendente: pubblicizzare prodotti basati sull’intelligenza artificiale senza mai mostrarli esplicitamente.
La logica è chiara: l’intelligenza artificiale, percepita da una parte del pubblico “non cool”, rischia di alienare i consumatori. Per questo, i brand preferiscono puntare su campagne che evocano emozioni, valori o stili di vita, lasciando l’elemento tecnologico sullo sfondo.

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La strategia “anti-IA marketing”
Secondo un’analisi avanzata da Cody Delistraty sul New York Times, questa strategia si può definire “anti-IA marketing”: invece di celebrare la potenza degli algoritmi, le aziende scelgono di normalizzare la tecnologia, rendendola invisibile.
Spot televisivi e campagne digitali mostrano famiglie serene, giovani creativi o professionisti soddisfatti, ma non menzionano mai il software che rende possibile quell’esperienza.
Un ribaltamento rispetto alla narrativa tradizionale, che negli anni passati esaltava l’innovazione come valore in sé e che ha già coinvolto non solo le grandi big tech come Anthropic ma anche Coca-Cola, che nel 2024 ha lanciato una campagna in cui ha coinvolto artisti digitali utilizzando anche l’IA nella produzione ma non esplicitandolo mai; Nike, che continua a utilizzare algoritmi di analisi dei dati per personalizzare le campagne ma nei suoi spot non compare mai la parola “IA”; Apple, che ha integrato funzioni intelligenti nei suoi dispositivi (dalla fotografia computazionale alle funzioni di assistenza) ma negli spot il messaggio è sempre orientato all’esperienza utente.
L’IA è diventata “trasparente”: un motore che lavora dietro le quinte, senza mai diventare protagonista.

Dario Amodei, CEO Anthropic, durante la TechCrunch Disrupt 2023. Foto: Wikipedia
L’intelligenza artificiale fa davvero paura?
Sempre secondo il New York Times, e a detta di diversi analisti, l’IA è oggi associata a paure diffuse: perdita di posti di lavoro, manipolazione dell’informazione, sorveglianza.
Invece di affrontare direttamente queste ansie, i brand preferiscono spostare l’attenzione su benefici tangibili e quotidiani. In pratica, l’intelligenza artificiale diventa un “motore invisibile” che sostiene il prodotto, ma non viene mai presentata come protagonista.
Questa strategia, tuttavia, comporta un rischio: privare la tecnologia della sua visibilità potrebbe ridurre la percezione di innovazione e leadership di marca.
Alcuni analisti si chiedono, infatti, se, a lungo termine, il pubblico non finirà per diffidare di aziende che sembrano nascondere ciò che realmente vendono. E la questione è piuttosto delicata dato che in ballo c’è un po’ quello che è il futuro dell’economia tech dei prossimi anni.
Il dilemma shakespeariano quindi oggi si può riassumere nella domanda: “Che cosa fare tra rassicurare i consumatori e mantenere un’immagine di avanguardia?”
Il dubbio solleva una questione cruciale anche per il mondo della comunicazione: “Come raccontare l’IA senza alimentare timori né sembrare evasivi?”.
La risposta anche se oggi pare semi-sconosciuta, risiede probabilmente in una narrazione più trasparente e umana, capace di mostrare la tecnologia come strumento al servizio delle persone, non come entità autonoma.
E in questo senso, l’“anti-IA marketing” è solo una fase di transizione, un esperimento che riflette le tensioni culturali del nostro tempo.




