I brand hanno paura di perdere la generazione Z e investono in traduttori culturali

Di il 09 Ottobre, 2025
Le grandi aziende devono stare al passo con i gusti e le preferenze dei più giovani. Per farlo, devono guardare alle piattaforme online e si fanno aiutare da agenzie di marketing specializzate
Foto copertina: Pexels.

Fare di una paura una fonte di guadagno. È quello che sta succedendo con alcuni brand che, per paura di perdere la generazione Z, stanno alimentando un’industria multimilionaria di quelli che possono essere definiti traduttori generazionali.

Non si tratta solo di conquistare un target, quello dei nati all’incirca tra il 1997 e il 2012, ma di evitare di essere esclusi da una intera fetta di potenziali clienti.

Paura di perdersi

Agenzie di marketing come NinetyEight, fondata a Los Angeles da giovani pubblicitari nati nel 1998, e divisioni interne, come il Gen Z Lab della multinazionale Edelman, si propongono di decifrare i codici culturali e comportamentali di una generazione nativa digitale e iperconnessa.

Il rischio non è solo quello di essere ignorati, ma di essere percepiti come inautentici, goffi o, peggio ancora, disallineati con i valori identitari della Gen Z.

“Non vogliamo essere influenzati dal marketing, vogliamo co-creare”, afferma Jess Xu di Edelman al Wall Street Journal.

È questa la chiave: i giovani non cercano marchi che parlino a loro, ma con loro.

E stare dietro alla velocità alla quale viaggiano trend e preferenze dei giovanissimi per i marchi, piccoli o grandi che siano, è sempre più complicato.

Con la moltiplicazione dei canali mediatici, le aziende devono essere sempre presenti e aggiornate.

Perciò si investe non solo in social media manager ed esperti di piattaforme online, ma anche in agenzie, consulenti, piattaforme e laboratori interni alle aziende che aiutano i marchi a trasformare simboli e valori della Gen Z in strategie di comunicazione efficaci.

Non si tratta di traduzioni linguistiche, ma di interpretazioni culturali.

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Cinque anni fondamentali

La posta in gioco è alta. Secondo Nielsen IQ, GfK e World Data Lab, il potere d’acquisto della Gen Z raggiungerà i 12,6 trilioni di dollari entro il 2030, scrive il Wall Street Journal.

Eppure, conquistare questa generazione è tutt’altro che semplice: la fine della monocultura, la frammentazione dei media e la velocità delle tendenze rendono obsolete le strategie tradizionali.

L’altro lato della medaglia deve fare i conti con una generazione che non vuole essere influenzata ma co-creare.

Secondo il Trust Barometer 2024 di Edelman, il 60% dei giovani sente un legame con chi usa gli stessi marchi, e il 46% giudica le persone in base ai brand che scelgono.

Le aziende diventano così un’estensione dell’identità e una porta d’accesso alla comunità. E ragazze e ragazzi vogliono esserne parte attiva.

Per fare un esempio, Barilla ha rivisto la comunicazione della sua pasta proteica puntando su energia e lifestyle, abbandonando il focus nutrizionale.

C’è quindi un’attenzione costante su come catturare le nuove generazioni, dal momento in cui non esiste più un messaggio universale, ma ogni contenuto va calibrato e pensato per micro-comunità differenti, ognuna con le proprie preferenze, attitudini e network.

Per i brand c’è ancora molto lavoro da fare e non possono permettersi di ignorarlo, ma devono dimostrarsi capaci di ascoltare e coinvolgere anche i loro nuovi – o prossimi – clienti.

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Chiara Buratti
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Chiara Buratti muove i suoi primi passi nel mondo del giornalismo nel 2011 al "Tirreno" di Viareggio. Nel 2012 si laurea in Comunicazione Pubblica e nel 2014 consegue il Master in Giornalismo. Dopo varie esperienze, anche all'estero (El Periódico, redazione Internazionali - Barcellona), dal 2016 è giornalista professionista. Lavora nel web/nuovi media e sulla carta stampata (Corriere della Sera - 7, StartupItalia). Ha lavorato in TV con emittenti nazionali anche come videoeditor e videomaker (Mediaset - Rete4 e Canale 5, Ricicla.tv).