Foto copertina: Davide Marra e Federico Lucia, in arte Fedez, co-conduttori di Pulp Podcast. Foto: su concessione degli intervistati.
Di lavoro, Davide Marra conduce Pulp Podcast insieme a Federico Lucia. Marra affianca Fedez dalla chiusura dell’esperienza con Muschio Selvaggio. Ma, dice, “il podcaster in Italia ancora non esiste nell’immaginario collettivo, come lavoro: è un mix di tante attività diverse. I ritmi sono insostenibili”.
Il suo programma, però, sta funzionando. Sono trascorsi soltanto 11 mesi da quando è stato pubblicato il primo video e oggi conta 264mila iscritti su YouTube e una pagina Instagram da 148mila follower, in forte crescita.
I due presentatori e autori sono supportati dalla penna del giornalista Giuseppe Francaviglia, già in Vice e direttore responsabile di The Vision, oggi anche collaboratore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Tra le puntate più viste, quella con Roberto Vannacci, che ha ottenuto 1,7 milioni di visualizzazioni, e all’orizzonte un progetto ambizioso ma ancora poco definito che si chiamerà Pulp Land, alla cui costruzione lavora anche l’autore e giornalista Matteo Grandi.
Il suo obiettivo, dice Marra, sarà quello di analizzare “specifiche tematiche, per fare giornalismo di approfondimento e narrazione”, senza però “essere schiavi delle regole di funzionamento dei social”.
Sul futuro di Pulp Podcast Marra e Francaviglia hanno condiviso la loro visione, spiegando perché, secondo loro, le puntate con i politici piacciono così tanto al pubblico italiano.
Su quali canali puntate maggiormente?
Giuseppe Francaviglia: Non siamo un canale all news, non facciamo informazione social, ma offriamo un punto di vista su ciò che accade, anche quando non di stretta attualità. Pulp Land avrà contenuti che possono riprendere Pulp Podcast, ma resteranno autonomi. Puntiamo su YouTube, innanzitutto, con contenuti mai sotto i dieci minuti perché vogliamo prenderci il tempo per approfondire e portare qualità, un po’ come si faceva sui siti pre-social. Anche Spotify va bene per questo proposito.
In che modo Pulp tratta le interviste politiche e come si differenzia dai concorrenti?
Davide Marra: Lo scenario è già saturo di contenuti che hanno a che fare con la politica, ma i vodcast sul tema sono di meno. Io stesso sono però combattuto su questo format. So che si possono fare ottime interviste pop ai politici, ma il rischio è di fare quella che chiamo operazione simpatia.
Cosa significa?
DM: Per operazione simpatia intendo quel tipo di interviste in cui non affronti in modo dialettico i politici, ma ti limiti a fare lo spot, come Matteo Renzi da One More Time o Roberto Vannacci da Gurulandia. Ed è pericoloso trattarli da personaggi pop, proprio perché c’è la politica di mezzo.
Come fate a evitare questo rischio?
GF: Grazie alla linea editoriale, che ci permette di staccarci e differenziarci dal coacervo di podcast nati negli ultimi anni e che si spartiscono una torta sempre più piccola. Guardiamo agli ultimi decenni e non alla stretta attualità, per cui sembra che non ci sia un filo rosso tra le puntate, ma in realtà l’impalcatura logica è più ampia. Non siamo né solo crime né solo interviste. Insomma, è difficile catalogare Pulp in un’unica definizione di podcast.
Chi è il comunicatore migliore tra i politici italiani?
DM: Un bravo comunicatore dipende dal contenitore. Io mi ritengo un buon comunicatore sui miei canali, ma se andassi in Parlamento non lo sarei. Tutto dipende da dove sei, da chi ti ascolta e quali mezzi quella persona ha per farlo. Per questo ti direi che Giorgia Meloni nel suo fa bene, in Parlamento o in tv, perché continua ad avere consensi. Forse non andrebbe altrettanto bene su un podcast. Da Diletta Leotta non ha fatto davvero un’intervista, ma un’operazione simpatia in cui parlare di sé come madre e spostare il focus dalla politica. Calenda invece è uno che in quei contesti sembra scorbutico o saccente, ma nei podcast si prende meno sul serio, alleggerisce e gestisce bene i tempi.
Elly Schlein?
DM: Sbaglia tutto quando va in televisione. Magari non in altri contesti, dove sono predisposti all’ascolto dei suoi temi e del suo modo di fare. Se sembri ansiosa o respingente, questi media non perdonano. E poi, se non sei divertente, non provare a esserlo. Pensate a un dibattito tra le due leader donne del nostro panorama? Non so se Meloni verrebbe: appunto, deve misurarsi con un mezzo diverso su cui il successo non è assicurato. In più, già si nega alla stampa, figuriamoci un dibattito. Schlein l’abbiamo invitata. È titubante, ma ci stiamo parlando.
Ha paura che proveresti a metterla in difficoltà?
DM: Non è una cosa che farei.
Perché?
DM: Perché, secondo me, un bravo intervistatore deve essere in ascolto dell’intervistato, porsi in empatia. Così come evito le operazioni simpatia e le promo, non avrei interesse a dare addosso a un ospite che magari so già essere un po’ in sofferenza per quella situazione.
Fammi qualche esempio.
DM: Con Maurizio Gasparri, sai che lui fa quello da 35 anni. Lavora con le parole, sa mediare, possiamo andarci giù con spunti più taglienti. Ilaria Salis, invece, non era troppo a suo agio in quel formato, ma non ne abbiamo approfittato. Anche se sei in disaccordo, in quei casi devi mettere la persona nelle condizioni di dibattere sullo stesso piano. Non ha senso andare con il coltello fra i denti.
E invece ha senso farlo con qualcuno in particolare?
DM: Ma no, con nessuno. Però, per esempio, Vannacci era uno che vinceva qualsiasi confronto con i giornalisti, per carisma e personalità, e allora abbiamo puntato su discorsi tecnici. Renzi e Calenda hanno un ego molto forte e quindi devi stare attento a non lasciare che prevarichi.
Il tuo ingrediente segreto per una buona intervista sembra essere la capacità di adattamento.
DM: Devi rilanciare gli spunti nella risposta dell’ospitato, assecondare il flow. È un equilibrio tra la tua personalità e la sua. Alcuni partono a tavoletta con le domande pre-impostate ed è mortificante quando anche chi intervista mette il pilota automatico. Se sei empatico ti viene naturale, se non lo sei ti devi forzare. Devi leggere chi hai davanti. È come danzare. È come fare l’amore. Anche con i politici. Il ruolo dell’intervistatore è anche ricordarsi sempre che quello è il loro lavoro, e rispettarlo.
Ti senti il Joe Rogan italiano?
DM: Quando ho cominciato nel 2018 non c’erano neanche le parole per descrivere la mia attività. Podcaster non era un termine ancora sdoganato nel lessico italiano, neanche influencer o content creator. Solo molti anni dopo riconosciuti come lavori anche dal punto di vista legislativo. In America c’erano già audiolibri e i podcast settoriali erano già parte della dieta mediatica statunitense. Ma quando è arrivato Cerbero, era una proposta di avanguardia per il panorama italiano. E poi sono arrivati anche i politici, qualcosa di ancora più inusuale. Abbiamo parlato di tutto su Cerbero, abbiamo fatto chiacchiere da bar con ragazzi come noi. Su Twitch trovavi il gaming, da noi politica e attualità, tra le altre cose.
Quando è stato il momento della svolta?
DM: Nel 2019 il mercato è esploso, un po’ in ritardo, e penso che anche qui YouTube abbia cominciato a sostituire davvero la televisione. Ma ogni prodotto si deve adattare anche al suo contesto spaziale e temporale di ricezione, perciò non farei paragoni.
Pensi che le celebrità debbano, o facciano bene, a esporsi su temi politici?
DM: Ho pensieri discordanti, perché da un lato può essere irritante e addirittura controproducente per la causa. Dall’altro, magari puoi scuotere davvero le coscienze. Ne abbiamo parlato anche con Serena Giacomin in una puntata dedicata alla comunicazione di Ultima Generazione. Ha fatto notare che, anche per la causa climatica, la presenza di Greta Thunberg è stata divisiva. Molto è dipeso da come le persone la percepivano. Casey Newton ha scritto che abbiamo costruito un mondo in cui il discorso civico si svolge dentro “giganteschi centri commerciali digitali”.
Perché ci aspettiamo questo da chi la politica non la fa?
DM: Per due motivi. Il primo è che la gente è stufa della politica, non ha più alcuna speranza verso i politici, mentre magari si fida delle buone intenzioni di alcune celebrità. E poi perché è difficile vedere l’accountability di un politico. Le conseguenze del loro non-fare sono difficili da vedere, difficile chiedere conto della loro inazione.
Qual è il secondo motivo?
DM: L’altra ragione sta nel fatto che la pressione sui content creator è enorme. Sono spesso i nuovi target dell’insoddisfazione e della rabbia generale. Rispetto ai politici, c’è la percezione che si possano distruggere le Ferragni o Strazzer di turno facilmente (ndr: Chiara Ferragni e Martina Strazzer, influencer, imprenditrici e content creator). Gli utenti sanno che se fanno pressione finiscono per ottenere qualcosa, che sia per una buona causa o per buttare qualcuno in pasto ai leoni.
Si dovrebbe cominciare a parlare di più anche della salute mentale dei content creator?
DM: Assolutamente sì. Il pubblico ama odiarli, vuole vederne successo e fallimento. C’è una rabbia sociale che emerge con più virulenza sui social. Un giornalista o un politico rischia meno. Sembra un paradosso, ma è davvero così. Se sbagli una dichiarazione da content creator, il prezzo è altissimo. Internet sta accelerando per molti versi la diseguaglianza sociale ed economica. Michelle Lhooq, autrice su Substack, ha detto di sentirsi come una “spogliarellista che balla sul palo di una newsletter mentre tutti applaudono, ma i lettori che ti ricoprono di soldi sono pochissimi”.
Che ne pensi?
DM: Le persone finiscono per non percepire che quello è il tuo lavoro. Il podcaster in Italia ancora non esiste nell’immaginario collettivo, come lavoro: è un mix di tante attività diverse. I ritmi sono insostenibili. Ho smesso di fare Twitch perché, nonostante andassero molto bene, servivano tre stream al giorno per tenere il ritmo ed era un auto-sfruttamento impietoso.
Quale sarà l’obiettivo di Pulp Land?
GF: Abbiamo una sfida davanti, ma contiamo sul supporto degli abbonati. Avremo una squadra di persone che andranno verticali su specifiche tematiche, per fare giornalismo di approfondimento e narrazione. Non vogliamo essere schiavi delle regole di funzionamento dei social. Vogliamo sottrarci allo schema per cui se fai un contenuto su un trend topic diventi opinion leader e quel primo post poi è trend setter, cioè definisce il taglio di quella notizia che va meglio e paga in termini di visualizzazioni.
Come sceglierete i temi da trattare?
GF: Vogliamo trovare la notizia giusta, che magari non ha riferimenti con l’argomento di punta del momento, ma che ci viene raccontata con altre lenti, con le sfaccettature necessarie a completare il racconto. Se tu schiacci la gelatina, le estremità hanno picchi infiniti, ma il centro resta piatto. La polarizzazione elimina queste sfaccettature.
Oltre agli abbonati, quale sarà il modello di business?
GF: Abbiamo attivato gli abbonamenti su YouTube già l’anno scorso e avremo fasce personalizzate. Questo riporta al rapporto con il giornale che si vendeva in edicola. L’abbonamento significa la possibilità di avere un sostegno al lavoro attraverso seguito e community forti, anche perché la percentuale presa dalla piattaforma è minima. Partiremo con dei contenuti più audaci, proponendoli alla community più fedele e propensa alla sperimentazione. Ma non mancheranno puntate aperte a tutti per il pubblico generalista. Non vogliamo seguire lo schema delle agenzie che propongono i soliti nomi, già sentiti in tutte le salse. Cerchiamo altro. E le persone lo hanno notato. Nonostante le prime difficoltà dovute a quanto stava accadendo in Muschio Selvaggio, hanno poi cominciato a fidarsi, anche incoraggiati dalla presenza di Marra che era conosciuto e stimato nel mestiere. E da marzo il feedback e il sentiment hanno cominciato a crescere.

Foto: Canva.
A proposito di informazione, quali prospettive vedete per il giornalismo italiano?
DM: I grandi editori tengono in piedi la baracca ma ancora per poco, perché si stanno trasformando in circoli che parlano a poche persone. La transizione che andava fatta sui nuovi mezzi non è stata mai realizzata. Si è rimasti in un settore ormai morto. Non si vuole pagare per i buoni articoli, dentro le redazioni i giornalisti sono sfruttati, sottomessi al clickbait e invece di fare buoni contenuti devono concentrarsi sulla dichiarazione storta di Fedez o sull’outfit di Elodie.
GF: L’urgenza di Pulp Land nasce proprio da un’insoddisfazione verso il panorama giornalistico italiano. C’è un buco enorme da poter occupare di domanda e offerta di approfondimenti. Prima del Covid c’erano programmi che investivano nei documentari, anche brevi. La televisione recepiva questo bisogno di attualità, divulgazione, ricostruzione storica. Ma i video e i prodotti di qualità costano. In Vice il salto era stato proprio questo: investire sull’estetica.
Qual è la soluzione?
GF: Serve un giornalismo immersivo, che racconti storie da altri punti di vista, dall’interno e con un’ottima qualità grafica. Invece editori, imprenditori e giornalisti scelgono, per ritorno personale di immagine, engagement e costi bassi, di investire tutto sui social media. Ma se non investi nelle persone e non paghi i tuoi giornalisti, ne risente anche la qualità.




