Foto copertina: la penisola iberica e il Nord Africa fotografati dalla stazione spaziale internazionale. Foto: Nasa’s Marshall Space Flight Center, Unsplash.
È finito il tempo della geopolitica? Pare di no, perché se con la geopolitica è possibile spiegare tante cose, con la geoeconomia è possibile spiegare quasi tutto.
Questa asserzione dal sapore vagamente marxiano potrebbe definire il successo di una disciplina emergente, frutto di quell’imperialismo che l’economia continua a esercitare – grazie al proprio apparato formale – nei confronti delle altre scienze sociali.

Donald Trump, 45esimo e 47esimo presidente degli Stati Uniti, e Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, in occasione di un incontro bilaterale tra Stati Uniti e Cina, durante il G20 a Osaka, in Giappone, nel 2019. Foto: Flickr.
Geoeconomia, in breve
La geoeconomia studia come gli Stati usano le leve economiche per rafforzare la propria posizione nella rete globale.
Non si tratta, quindi, di spiegare la crescita o il benessere ma il potere, la capacità di condizionare le scelte altrui attraverso strumenti economici.
Attraverso la geopolitica si possono decifrare le dinamiche degli ultimi decenni in Medioriente, ma non è sufficiente per comprendere la Belt and Road Initiative, tramite la quale la Cina investe in infrastrutture in Asia, Africa ed Europa per espandere la propria influenza.
La mappa delle principali tematiche che oggi ricadono in questo ambito è densa: la guerra commerciale tra Stati Uniti, Europa e Cina, in cui dazi, restrizioni tecnologiche e sanzioni incrociate sono strumenti di pressione, non di sviluppo.
O ancor, le sanzioni contro la Russia, un esempio fallimentare di come l’Occidente abbia cercato di influenzare le scelte militari di Mosca, e il controllo delle terre rare, che finora nessuno aveva mai sentito neanche nominare, e dei semiconduttori.
In generale, la frammentazione economica globale, con la tendenza a regionalizzare le catene del valore come risposta a rischi geopolitici.
Tra economia e comunicazione
I pionieri della disciplina non sono economisti. Il più noto è Edward Luttwak, al quale si deve almeno la paternità del nome e che in Italia è famoso, oltre che per le intemerate belliciste in televisione, per il controverso La grande strategia dell’impero romano.
Ma poi, come si è detto, il controllo del campo di gioco è passato agli economisti e alle loro formalizzazioni.
Tra questi Matteo Maggiori, professore di finanza a Stanford, che ha recentemente pubblicato il paper Geoeconomic Pressure insieme a Christopher Clayton, Antonio Coppola e Jesse Schreger.
Il lavoro ha una forte valenza anche per chi si occupa di media e comunicazione, perché propone una metodologia basata sull’IA per identificare sistematicamente chi esercita pressione, su quali obiettivi e con quali strumenti, analizzando vasti corpora testuali, in particolare earning call aziendali e report di Jp Morgan e Fitch.
I risultati mostrano che le imprese colpite da dazi reagiscono soprattutto con variazioni di prezzo, mentre quelle soggette a controlli sulle esportazioni investono di più in ricerca e sviluppo.
C’è anche una eterogeneità significativa nelle modalità di risposta delle imprese alla pressione, in base al fatto che il loro governo nazionale stia esercitando o sia destinatario della pressione o che le aziende abbiano sede in un Paese terzo coinvolto.
La metodologia può ricordare il lavoro, condotto in maniera molto più artigianale, di Joseph Turner – Robert Redford – nel film I Tre giorni del condor.
Nel film, un analista della Cia scopre un piano di invasione del Medioriente solo grazie alla lettura quotidiana di testi scritti in diverse lingue. Il film è del 1975, un’era geologica fa. O no?




