Il trumpismo anti-woke divide le campagne pubblicitarie americane

Di il 18 Dicembre, 2025
In America ad avere l'ultima parola sul successo o meno di un brand pare essere il presidente Trump. Così è accaduto in due noti casi pubblicitari: American Eagle e Cracker Barrel. Il primo ha visto una crescita delle azioni a Wall Street, il secondo un calo drastico
Foto di copertina: Donald Trump, 45esimo e 47esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Foto: Flickr

Sebbene negli ultimi anni molte aziende statunitensi avessero puntato su campagne inclusive, legate a diversità, equità e rappresentanza, con il ritorno di Donald Trump e la sua “crociata anti-woke”, questo approccio è diventato terreno di scontro.

Il trumpismo divide, segnando un confine netto in cui ogni scelta estetica o narrativa a livello pubblicitario viene letta come un segnale politico.

Così ci sono aziende come la nota American Eagle, balzata agli oneri della cronaca per il controverso caso della pubblicità dei jeans con Sydney Sweeney, che in America oltre a far discutere fatturano, e altre, come la catena di ristoranti Cracker Barrel che, al contrario, si trovano in una difficile situazione economica dopo la modifica del logo, come si legge sul Financial Times.

Ecco che cosa sta succedendo.

L’attrice Sydney Sweeney al festival del cinema di Berlino, nel 2023. Foto: Wikimedia Commons.

L’anti-woke divide

Questo fenomeno che viene definito “anti-woke” si afferma come sempre più divisivo per brand e imprese americane. Se, appunto, da un lato c’è chi ne trae un beneficio, come accennato American Eagle, da un altro c’è chi vede soffiarsi via anni di lavoro.

Tutta colpa della politica? In parte, ma non in toto. Sebbene il nuovo logo di Cracker Barrel in stile sudista, poi abbandonato, abbia fatto infuriare i conservatori americani, a non avere apprezzato il nuovo brand non è stata soltanto la politica.

Online si sono scatenate una serie di polemiche che hanno coinvolto utenti dei social i quali non hanno alcun ruolo governativo.

E così era stato anche per il famigerato spot dei jeans American Eagle che sui social era andato virale dopo un’ondata di accuse su una presunta “supremazia bianca”.

Che cosa è stato, quindi, a fare la differenza? La parola del presidente Trump, che nel caso di American Eagle aveva difeso apertamente lo spot, trasformando un caso di marketing in un caso politico.

Subito dopo le sue dichiarazioni, le azioni del brand a Wall Street erano volate del 23%, come si legge su Milano Finanza, e poi del 53%, dimostrando come il sostegno politico possa convertire la polemica in visibilità e profitto.

La campagna di American Eagle è diventata, quindi, un esempio di come il trumpismo anti‑woke premi messaggi percepiti come “anti‑egualitari”, ribaltando la logica dell’inclusività a cui si guardava sempre più spesso ultimamente.

Jeans American Eagle in un negozio. Foto: Wikimedia Commons

Il caso Cracker Barrell

Non è andata allo stesso modo per la nota catena di ristoranti di Cracker Barrell.

Il tentativo di rebranding, durante il quale è stato sostituito lo storico logo con una versione più minimal e moderna, è stato bollato dai MAGA come “woke” e “noioso”, causando un crollo del titolo in borsa di 94 milioni di dollari in un solo giorno, come si apprende da The Independent.

A intervenire sul caso è stato lo stesso presidente Trump, che ha chiesto il ritorno al vecchio logo presentando la questione come una “difesa della tradizione americana”.

Così, l’azienda ha fatto marcia indietro, ripristinando il simbolo originale e trasformando la crisi in un caso di studio su come la pressione politica possa orientare le scelte di branding.

Foto: Cracker Barrel sito web.

Due facce della stessa medaglia

Due casi diametralmente opposti che dimostrano quanto sia davvero influente la politica all’interno delle campagne di marketing di alcuni tra i più famosi brand americani. Ma non solo.

Il trumpismo anti‑woke sta riscrivendo le regole della pubblicità.

Tra queste, la polarizzazione come strategia in un momento in cui i brand non cercano più il consenso universale ma si riservano nicchie di target, ma anche la politica come leva di marketing: il sostegno o l’attacco di Trump può determinare il successo o il fallimento di un brand.

In questo scenario si nota spesso come venga comunque privilegiato il mantenimento della tradizione su loghi, simboli e linguaggi “classici” che vengono preferiti a estetiche inclusive o progressiste.

Mentre negli USA il trumpismo anti‑woke spinge le aziende a ridimensionare la comunicazione inclusiva, in Europa molte imprese continuano a investire su diversità e rappresentanza.

Si apre, così, un divario culturale e strategico che potrebbe influenzare la percezione internazionale dei brand americani.

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Chiara Buratti
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Chiara Buratti muove i suoi primi passi nel mondo del giornalismo nel 2011 al "Tirreno" di Viareggio. Nel 2012 si laurea in Comunicazione Pubblica e nel 2014 consegue il Master in Giornalismo. Dopo varie esperienze, anche all'estero (El Periódico, redazione Internazionali - Barcellona), dal 2016 è giornalista professionista. Lavora nel web/nuovi media e sulla carta stampata (Corriere della Sera - 7, StartupItalia). Ha lavorato in TV con emittenti nazionali anche come videoeditor e videomaker (Mediaset - Rete4 e Canale 5, Ricicla.tv).