Dentro e fuori lo schermo viviamo tra protezione e illusione

Di il 13 Settembre, 2025
Francesco Casetti_free Flickr
Il professore di Yale Francesco Casetti analizza il mondo digitale, tra protezioni, illusioni di comunità e rischi di una fiducia eccessiva negli algoritmi. "I nuovi media chiedono sempre di più, la tv sempre di meno"
Foto copertina: Francesco Casetti, Sterling Professor all’Università di Yale, durante un convegno a Parigi, nel 2013. Foto: Flickr.

Siamo circondati da schermi. Ci mostrano il mondo, ma spesso offrono anche un rifugio da esso. Francesco Casetti, Sterling Professor all’Università di Yale ed esperto di media e comunicazione, li studia da anni e oggi ci invita a guardare oltre la superficie.

Dai microschermi di TikTok e YouTube alle nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale, i media non sono solo strumenti di informazione e intrattenimento: diventano spazi di protezione, bolle in cui ci rifugiamo e identità che costruiamo.

Tutto è iniziato con una conversazione durante un pranzo. Poche battute sono bastate per aprire scenari curiosi sul ruolo degli schermi e sul nostro modo di abitare il presente.

Da lì è nata l’idea di questa intervista: un dialogo che attraversa la frammentazione della società, il fascino dell’immersività e il bisogno crescente di trovare nuove sensibilità per abitare un mondo sempre più plasmato dai mezzi di informazione.

Nel tuo libro Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione, sostieni che gli schermi non sono solo finestre sul mondo, ma anche barriere che ci proteggono da esso. La proliferazione di microschermi e piattaforme – da TikTok a YouTube – è una tendenza per contenere le nostre paure diffuse?
Penso di sì. Nel periodo successivo alla pubblicazione del libro sto continuando a esplorare quelli che io chiamo gli schermi benefici, pronti a proteggerti e difenderti. In particolare, sto lavorando sulle application dell’intelligenza artificiale, che sono ossessivamente legate a forme di protezione e aiuto. Assistance è la parola chiave per capire quello che fanno. È una tendenza, quella di oggi, ad essere protettivi e supportivi delle persone. Credo che il mercato della protezione e dell’assistenza sia oggi il principale nel campo dei media.

In questo panorama mediatico frammentato, ogni individuo può costruire la propria bolla informativa. Cosa comporta questa frammentazione per la nostra esperienza collettiva del reale? È ancora possibile parlare di uno spazio pubblico condiviso?
Credo che sia difficile parlare di uno spazio pubblico condiviso, nonostante alcuni momenti in cui apparentemente siamo nello stesso luogo fisico o figurato. Penso, ad esempio, alla passione per Jannik Sinner, siamo tutti improvvisamente diventati fan del tennis, come lo eravamo del calcio durante le notti magiche o nelle vittorie nelle coppe del mondo. Salvo questi momenti, bisogna partire dall’idea di una estrema frammentazione della società.

Cioè?
La frammentazione va pensata in due modalità: da una parte tramite i processi di individualizzazione, cioè a ciascuno la sua bolla. Dall’altra, in termini di processi di diversificazione e diversità. È un discorso molto delicato perché c’è apparentemente una resistenza all’accettazione della diversità. Tuttavia, credo che la situazione di oggi sia quella di un implicito riconoscimento che il comune è un po’ meno vincolante e pressante di un tempo.

Questi concetti si riflettono anche nel tuo post libro?
Sì. Il concetto di moltitudine è molto importante. Mi interessa questa idea di una individualizzazione, frammentazione progressiva del sociale per la quale si deve riconoscere la differenza come elemento costituivo del comune. Per me è una grande fonte di ispirazione il lavoro di Roberto Esposito sul senso della comunità, contrapposto al senso della immunità. Devo ammettere che in questo momento il pensiero filosofico italiano ha una grande presa anche negli Stati Uniti.

In Italia la televisione mantiene una solida leadership come fonte di informazione. È un segnale di fiducia nella mediazione forte e centralizzata della televisione, oppure di una maggiore fatica ad accettare le logiche più fluide dei media digitali?
In qualche modo bisogna uscire da questa alternativa, cominciando a concepire il panorama dei media come un panorama dove, in una sorta di omeostasi, c’è qualcuno che gioca ruoli più arretrati di altri. Se i nuovi media ci chiedono di fare di più, ci mettono difronte ad un mondo che ci chiede sempre di più, la televisione invece ci chiede sempre di meno. È una forma protettiva come il sonno, puoi abbassare le tue barriere e rilassarti. Mentre il mondo ti chiede di essere sempre più attivo e il capitalismo contemporaneo ti toglie il sonno, davanti alla tv diventi cretino e felicemente cretino.

Analizzi storicamente il ruolo degli schermi, dalla Fantasmagoria settecentesca ai display dei nostri laptop. Potremmo dire che YouTube oggi svolge una funzione simile a quella del cinema che fu, un luogo dove paura e piacere si intrecciano? Cosa cambia rispetto a ieri?
YouTube assomiglia al cinema delle origini, quando andavi a vedere cose che duravano un minuto. Solo dopo arriva la grande narrazione, quando il cinema diventa la letteratura del ‘900. Al di là di questa rapida interpretazione, c’è un problema che credo sia fondamentale: per capire i media bisogna guardarne la storia. Perché i media non muoiono mai, si trasformano, diventano qualcos’altro, inclusi i media obsoleti come il walkman. Lo smartphone è lo strumento più interessante oggi, sostituendo altri media senza cancellarne le funzioni. Credo che ci sia una archeologia dei media che è fondamentale se vuoi capire il presente.

La protezione, scrivi, ha un costo: può soffocare, limitare, generare nuove paure. In un mondo dove i contenuti sono personalizzati dagli algoritmi e la visione è sempre “per me”, rischiamo di diventare prigionieri del nostro stesso desiderio di protezione?
Sì. Tutta questa fiducia nell’intelligenza artificiale è mal posta: l’IA è un altro modo di costruire il mondo a nostra immagine e somiglianza, senza farci scontrare con la realtà. Vivo in un campus dove ho tante protezioni, dalla polizia agli autobus che ti portano a casa. È una bolla protettiva e quando metti il naso fuori rischi di non essere preparato alla brutalità del mondo. Da questo punto di vista, è interessante la tendenza di uscire dal mondo mediatizzato, che è un mondo protetto, per andare verso forme più protette. Penso ad esempio a chi fa i viaggi avventurosi, quando hai l’emozione di uscire da un mondo protetto, ma in realtà sei protetto.

Foto: Canva.

Molti content creator di successo non offrono informazione, ma esperienze immersive, emozionali, intime. È come se ogni video fosse una piccola bolla immaginaria in cui rifugiarsi. Questo meccanismo può dirsi affine alla logica degli schermi che descrivi?
È così. Credo che l’immersività oggi sia la forma estrema di falso rischio ma totale protezione. E chi ti offre immersività come un modo di confrontarsi con il mondo è completamente in malafede. L’immersività è esattamente il rifugiarsi nella propria bolla.

Inviti a sviluppare una nuova sensibilità per affrontare i tempi che viviamo. In un’epoca di overload informativo, dove possiamo trovare questa nuova sensibilità? Nella distanza dallo schermo o in un uso più consapevole di esso?
In entrambi. Per anni abbiamo insegnato che l’autoconsapevolezza ci proteggeva dai rischi. No, non è vero. Anche la rinuncia, il passo indietro o l’affacciarsi sul mondo ci proteggono. Smettiamo di essere quei turisti che vanno a Roma, fanno foto, e poi vedono Roma a casa loro guardando le foto che hanno fatto. Mettiamo in tasca il telefono e guardiamo la realtà. Questo forse è l’unico vero antidoto all’iperprotezione che ci stiamo dando.

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Carlo Castorina
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