Le fotografie di guerra di Fabio Bucciarelli non vogliono solo mostrare violenza ma creare domande

Di il 02 Luglio, 2025
Bucciarelli Fabio
Vincitore della medaglia d’oro Robert Capa, ha lavorato in Siria, Ucraina, Cisgiordania, Libano e Gaza. A mettere un filtro alle fake news "non saranno i giornali, ma la consapevolezza delle persone"
Una versione in lingua inglese di questo articolo è stata pubblicata dallo stesso autore il 3 luglio 2025.

Negli ultimi quindici anni, le immagini viscerali di Fabio Bucciarelli sui conflitti globali e le loro conseguenze umanitarie lo hanno affermato come uno dei più rilevanti fotogiornalisti internazionali degli ultimi anni.

È stato nelle principali zone di guerra, ha documentato le grandi crisi globali, dando voce a quelli che la guerra e le tragedie le vivono in prima persona.

In tasca una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni al Politecnico di Torino, in mano una macchina fotografica, la sua grande passione che nel tempo è diventata la sua compagna di viaggio in mezzo a guerre, migrazioni forzate, disastri ambientali e rivolte sociali.

Ha lavorato sul campo durante la Primavera araba, il conflitto in Siria e la guerra in Ucraina. Ha documentato la pandemia di Covid-19 in Italia per il New York Times, proseguendo alla volta della Palestina occupata per tornare nel Medio Oriente, in Cisgiordania, nel Libano, a Gaza.


Il suo impegno è stato riconosciuto a livello internazionale. Tra i premi più prestigiosi che ha ricevuto ci sono la medaglia d’oro Robert Capa, due World press photo, 13 volte il riconoscimento Pictures of the year international e molti altri.

Tra le sue pubblicazioni: The Dream, un viaggio emotivo e intimo attraverso la crisi dei rifugiati e la condizione umana, nominato dal Time tra i migliori libri fotografici dell’anno e South Sudan: The Identity of the World’s Youngest Country.

Oggi Fabio Bucciarelli collabora con i principali media internazionali e, dal 2011, scrive per Il Fatto Quotidiano.

Tra pochi giorni uscirà Occupied Territories, il suo secondo libro, una raccolta di lavori realizzati in Cisgiordania, Gaza e Libano tra il 2013 e il 2024. Il suo lavoro sarà anche al centro di una mostra a Sarajevo che poi arriverà anche in Italia.

Bucciarelli ha raccontato il suo lavoro a Mediatrends, in occasione di The Big Interview, l’evento di Wired Italia – del quale Mediatrends era ospite – che si è tenuto il 26 giugno all’Università Bocconi di Milano.

Il fotografo ha sottolineato alcune questioni cruciali che segnano uno spartiacque tra il passato e il presente, non solo del mondo editoriale ma della percezione che oggi gli utenti del web hanno di giornalisti, informazione, correttezza professionale, etica.

Fabio Bucciarelli durante l’evento The Big Interview, organizzato da Wired Italia all’Università Bocconi il 26 giugno 2025. Foto: Franco Russo.

Le risorse per l’editoria sono sempre più scarse. Nel campo dei freelance e delle inchieste qual è la situazione?
Il patto di fiducia tra giornali e pubblico si è inclinato, se non rotto definitivamente. La gente non si informa più dai giornali e una grande responsabilità ce l’ha il tipo di informazione che propongono. La stampa occidentale appoggia alcuni personaggi politici e di conseguenza i lettori non ci credono più, nonostante vogliano comunque sapere come va il mondo e che cosa succede. Credo che oggi si sia aperto un grande buco, c’è uno spazio da riempire.

Ed è qui che si inseriscono i social e i new media.
Ci troviamo in un momento di forte cambiamento, dove non servono più intermediari, ma con i social si hanno contenuti non filtrati in modo immediato. Questi strumenti possono far riavvicinare la gente all’informazione e tornare a dare un senso di collettività a questo mondo.

Il momento storico non aiuta e sembra rendere l’informazione ancora più frammentaria.
L’avvento dei social e dell’uso che se ne fa ci immerge in bolle di individualismo e non ci interessa più dell’altro. Quello che, infatti, dobbiamo fare è tornare alla collettività propria della storia dell’uomo, altrimenti nessuna battaglia sociale sarà valsa la pena. Il 2024 è stato un anno terribile per il giornalismo, più del 70% dei colleghi palestinesi sono stati uccisi ma se ne parla troppo poco. Credo proprio che sia giunto il momento di invertire la rotta e tornare all’empatia e alla comprensione dell’altro.

Oggi la figura del giornalista con i social come sta cambiando?
Ci troviamo di fronte a uno scenario che sta evolvendo velocemente. A volte si crede che i cosiddetti “influencer” siano tutti giornalisti e che tutto quello che si legge e si vede online sia notizia ma non è così. Si dovrebbe incentivare la cultura al rapporto con il digitale, facendo capire alle persone che ci sono professionisti, dei freelance, sia qui sia a Gaza, che hanno credibilità e si sono formati per garantire l’informazione. Questo vuol dire che non ogni persona che ha una penna in mano è un poeta o chiunque ha una macchina fotografica è un fotografo. Per contro, una diffusione così rapida dell’informazione è da tenere sotto controllo perché, come sappiamo bene, il rischio è quello di cadere nella propaganda e nelle fake news. Per fare un esempio pratico: certi giornali mainstream usano l’IA ma non lo dicono.

Qual è la reazione del pubblico?
Da questo punto di vista, c’è chi si sente preso in giro. C’è quindi bisogno di un filtro. A metterlo non saranno più i giornali, ma le persone stesse che hanno preso consapevolezza.


L’esposizione a immagini di guerra sempre più dirette e all’ordine del giorno è un aspetto positivo o negativo?
Considerando che il fotogiornalista va in zone di conflitto, non può fare a meno di documentare certe brutalità dell’essere umano. Anzi, questo è proprio il suo scopo. Resta però fondamentale il modo in cui queste brutalità vengono fotografate. L’obiettivo non è la morbosità, la violenza della guerra, ma raggiungere un’immagine iconica, che vada oltre il tempo e lo spazio, che sappia dialogare con la nostra coscienza e non abbia bisogno di palesare tutto. In un certo senso deve “sussurrare”, non per forza urlare ma lanciare spunti per farsi delle domande. Perché di risposte non ne abbiamo neanche noi che nella guerra ci andiamo di persona.

Ha seguito tanti conflitti e fatto reportage difficili, quale zona oggi le piacerebbe oggi documentare?
Senza ombra di dubbio, Gaza. Ci sono stato la prima volta nel 2013, ma dal 7 ottobre non ci si può più entrare. Sono riuscito ad andarci pochi giorni dopo il 7 ottobre con un aereo dell’aviazione giordana che portava aiuti umanitari. Ora per entrare in quel territorio devi essere autorizzato dai militari israeliani. Questo significa che una volta che vuoi uscire ti controllano tutto il materiale che hai registrato. Così fanno la loro propaganda. Invece, io vorrei entrare a Gaza da uomo libero.

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Chiara Buratti muove i suoi primi passi nel mondo del giornalismo nel 2011 al "Tirreno" di Viareggio. Nel 2012 si laurea in Comunicazione Pubblica e nel 2014 consegue il Master in Giornalismo. Dopo varie esperienze, anche all'estero (El Periódico, redazione Internazionali - Barcellona), dal 2016 è giornalista professionista. Lavora nel web/nuovi media e sulla carta stampata (Corriere della Sera - 7, StartupItalia). Ha lavorato in TV con emittenti nazionali anche come videoeditor e videomaker (Mediaset - Rete4 e Canale 5, Ricicla.tv).