Quando i media diventano campi di battaglia

Di il 12 Giugno, 2025
Durante il conflitto tra India e Pakistan, le fake news hanno invaso le testate tradizionali e sono dilagate sui social, a riprova di quanto pesino le campagne di disinformazione

In un conflitto le notizie disponibili al pubblico sono fondamentali. Determinano come una popolazione accoglie le scelte dei propri governi ed il sentimento popolare.

È quindi interessante analizzare quello che è accaduto a inizio maggio nel subcontinente indiano.

Il 22 aprile, un gruppo terroristico islamico ha ucciso 25 turisti indiani e un nepali di origine indù nella regione del Kashmir. Questa striscia di terra, da sempre ragione di discordia tra Pakistan e India, ha una popolazione a maggioranza musulmana ma è sotto controllo indiano.

Secondo il governo di Nuova Delhi, i terroristi hanno ricevuto il supporto e il coordinamento di Islamabad, causando l’ennesima diatriba tra i due Paesi.

Come riporta il Washington Post, i media dei due Stati coinvolti nello scontro hanno vissuto un momento turbolento.

Durante il conflitto le fake news hanno dilagato.

Le emittenti televisive e i quotidiani spesso riportavano indiscriminatamente le notizie provenienti da fonti governative, senza verificarle.

Dall’altra parte, i funzionari pubblici rifiutavano di confermare i fatti e raggiravano le domande delle testate internazionali.

Questa mancanza di dichiarazioni ufficiali ha creato un clima di confusione e incertezza.

Episodi simili evidenziano quanto sia diventato importante lo scambio di informazioni libero e verificato.

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Una vista di Islamabad, capitale del Pakistan, con la moschea nazionale Faysal. Foto: Wikimedia Commons.

Disinformazione umana

In un tempo in cui le fake news sono generate da chatbot e accompagnate da deep fake, il caso dello scontro tra India e Pakistan si discosta dalla norma.

L’origine delle notizie riprese dai media non erano ingannevoli testi generati dall’IA. Per la maggior parte erano soffiate infondate da parte di enti e agenti governativi.

Un’ulteriore dimostrazione del fatto che sia l’uomo stesso molto spesso a generare e a far proliferare cicli di disinformazione.

È infatti questo il mezzo più potente che la politica ha per creare unione e favore popolare.

Le notizie che polarizzano l’opinione pubblica di frequente sono anche le più veloci a diffondersi.

Per questo motivo, in special modo durante un conflitto, è facile che i governi utilizzino informazioni estreme per attirare l’attenzione dei propri elettori.

L’India, in particolare, era già stata soggetto di una forte ondata di fake news durante la tornata elettorale del 2024. E il governo Modi aveva già sperimentato l’utilizzo dei social media come catalizzatori di odio e violenza.

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Il primo ministro indiano, Narendra Modi, nel 2021, durante un incontro con il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, nel 2021. Foto: Wikimedia Commons.

Esercito dei media

In questo contesto, però, il governo indiano ha sfruttato l’utilizzo della disinformazione per un nuovo scopo.

L’obiettivo non era quello di screditare un avversario politico, ma raccogliere supporto per le azioni condotte contro il vicino Pakistan.

Tramite le false informazioni fornite ai media, gli ufficiali governativi volevano creare un clima di ostilità verso l’avversario, in modo che la nazione risultasse unita e coesa. 

In tutto ciò, l’indipendenza dei giornali è stata fortemente minata, con diverse testate che si limitavano a fornire un megafono al potere militare.

Molti conduttori e reporter non avevano come obiettivo quello di fornire informazioni attendibili. Desideravano compiacere il governo, vedendo un’opportunità per fare carriera e ottenere collegamenti preferenziali con le autorità.

Senza fact-checking

Oltre ai vantaggi personali, l’altro fattore che ha scatenato questo disastro mediatico è stata la competizione tra rivali nel mondo editoriale.

Si è verificata una gara a chi pubblicava per primo l’ultina notizia, a discapito del fact-checking.

Spesso infatti, come già successo in passato, le foto diffuse dai media venivano da altre guerre, come quelli a Gaza e in Sudan, e non avevano nessun collegamento con il conflitto in questione.

Non appena una testata pubblicava una notizia, gli altri seguivano. Senza verificare i fatti, o cercare conferme. Non contava la qualità del prodotto editoriale, l’importanza era data dalla partecipazione alla narrazione degli eventi.

Una volta che le notizie entravano in circolazione, gli account sui social media le riprendevano.

Questo processo innescava poi l’esplosione delle notizie in rete, ampliata ancora di più dagli algoritmi.

La responsabilità era triplice: le autorità che fornivano informazioni, i media che non le hanno verificate e i social che faticano – o, secondo i recenti sviluppi, non hanno troppo interesse – a limitare i contenuti falsi.

Benzina sul fuoco

La questione è poi aggravata dal contesto in cui si è verificata.

La diffusione di queste fake news infatti ha rischiato di peggiorare ancora di più una situazione che era già sull’orlo del collasso.

I media hanno quindi enfatizzato e drammatizzato la gravità della situazione, rischiando di favorire un’escalation sostenuta dai cittadini, ingannati dalle fake news.

Negli ultimi anni, la cautela militare, la diplomazia e i canali ufficiali possono non bastare più per evitare di cadere in un conflitto. La disinformazione online, sui media e sui social,  ha un’influenza tale da poter diventare un fattore scatenante di ostilità.

In questo caso l’escalation è stata evitata, ma nulla è scontato.

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