L’odio come modello di business spopola online in Gran Bretagna

Di il 26 Dicembre, 2025
La comunicazione digitale diventa un campo in cui la vulnerabilità di migranti, influencer, piccoli imprenditori e utenti comuni viene sfruttata per ottenere visibilità, potere o denaro
Foto di copertina: Freepick

Nel Regno Unito, negli ultimi anni, una costellazione di pagine Facebook apparentemente locali ha alimentato un flusso costante di contenuti anti‑migranti: video di sbarchi, narrazioni allarmistiche, immagini manipolate, titoli sensazionalistici.

A un primo sguardo sembravano iniziative spontanee di cittadini preoccupati. In realtà, come ha ricostruito Facta.news, molte di queste pagine erano gestite da un gruppo di influencer e creatori di contenuti con base nello Sri Lanka.

Foto: Pexels

Sfruttare la paura per monetizzare

L’obiettivo non era politico, ma economico: sfruttare l’engagement generato da paura, indignazione e polarizzazione per monetizzare tramite la pubblicità. Un modello semplice e spietato: più rabbia = più interazioni; più interazioni = più guadagni.

Le pagine pubblicavano contenuti estremi, spesso falsi o manipolati, calibrati per massimizzare la reazione emotiva del pubblico britannico.

Il risultato è stato un ecosistema artificiale in cui la percezione dell’immigrazione veniva distorta da attori che non avevano alcun legame con il contesto locale, ma che conoscevano perfettamente le dinamiche dell’algoritmo.

Un esempio emblematico di come la disinformazione possa essere industrializzata e delocalizzata, trasformando il rancore in un flusso di reddito.

Foto: Freepick

Il caso Tattle Life

Se il caso delle pagine anti‑migranti mostra come l’odio possa essere prodotto e venduto, la storia di Tattle Life racconta cosa accade quando l’odio diventa una comunità, un’abitudine, un rituale collettivo.

Nato nel 2017, Tattle Life si è presentato come un forum dedicato alla “critica” degli influencer, come si legge sul Portale del Ticino.

In realtà, è diventato un luogo in cui migliaia di utenti si sentono autorizzati a demolire la reputazione di figure pubbliche e persone comuni, protetti dall’anonimato.

Il sito dichiara una politica di “tolleranza zero” verso contenuti abusivi, ma nei fatti ha ospitato — e spesso amplificato — commenti diffamatori, insinuazioni, attacchi personali e veri e propri episodi di persecuzione digitale.

Le storie delle vittime sono numerose e dolorose. La modella Katie Price ha raccontato di aver letto centinaia di commenti anonimi sul proprio aspetto e sulla sua famiglia, fino a precipitare in un grave stato di salute mentale.

L’influencer Carly Rowena è stata accusata di sfruttare la malattia del figlio per profitto, mentre il suo indirizzo e quello dei suoi genitori venivano pubblicati sul forum.

Caroline Hirons, esperta di skincare, ha denunciato la pubblicazione di foto dei suoi nipoti.

Lydia Millen ha parlato di “trolling implacabile” durato anni.

In tutti i casi, l’anonimato è stato lo scudo perfetto: nessun responsabile identificabile, nessuna possibilità di tutela legale.

Per anni, nessuno sapeva chi avesse creato Tattle Life. Poi, nel giugno 2024, la svolta: una coppia di imprenditori dell’Irlanda del Nord, Neil e Donna Sands, vittime a loro volta del forum, sono riusciti a identificare il fondatore.

Dietro lo pseudonimo “Helen McDougal” si nascondeva Sebastian Bond, 43 anni, ex creator.

La coppia ha portato Bond in tribunale, ottenendo una condanna a 300mila sterline di risarcimento. Il giudice ha definito Tattle Life “un sito costruito per trarre profitto dalle miserie delle persone”.

Lo smascheramento ha rivelato anche la rete di utenti che alimentava il forum. Tra di loro, infermieri, avvocati, docenti universitari, persone che nella vita offline non avrebbero mai pronunciato le parole che scrivevano online.

Molti sono scomparsi dopo la rivelazione. Pochissimi hanno chiesto scusa.

Foto: sito web Tattle.life

L’odio come modello di business

I due casi — le pagine anti‑migranti e Tattle Life — sembrano lontani, ma raccontano la stessa trasformazione:

  • l’odio non è più un effetto collaterale della rete, ma un modello di business;
  • la polarizzazione è un asset;
  • l’anonimato è un acceleratore;
  • le piattaforme sono il terreno fertile su cui queste economie prosperano.

Nel primo caso, l’odio è prodotto industrialmente per generare traffico. Nel secondo, è coltivato come forma di intrattenimento tossico, una community che si autoalimenta.

In entrambi, la comunicazione digitale diventa un campo in cui la vulnerabilità delle persone — migranti, influencer, piccoli imprenditori, utenti comuni — viene sfruttata per ottenere visibilità, potere o denaro.

Questi casi sollevano una questione cruciale: come si regolamenta un ecosistema in cui l’odio è diventato un prodotto, una strategia, un linguaggio?

Non basta parlare di moderazione o di policy ma l’interrogativo dovrebbe interessare la responsabilità delle piattaforme, la trasparenza degli algoritmi, il ruolo dell’anonimato, la fragilità delle persone esposte e la facilità con cui l’odio può essere monetizzato.

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Chiara Buratti
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Chiara Buratti muove i suoi primi passi nel mondo del giornalismo nel 2011 al "Tirreno" di Viareggio. Nel 2012 si laurea in Comunicazione Pubblica e nel 2014 consegue il Master in Giornalismo. Dopo varie esperienze, anche all'estero (El Periódico, redazione Internazionali - Barcellona), dal 2016 è giornalista professionista. Lavora nel web/nuovi media e sulla carta stampata (Corriere della Sera - 7, StartupItalia). Ha lavorato in TV con emittenti nazionali anche come videoeditor e videomaker (Mediaset - Rete4 e Canale 5, Ricicla.tv).