L’occasione persa di Ipnocrazia

Di il 30 Maggio, 2025
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L'esperimento editoriale ideato da Andrea Colamedici con l'ausilio dell'IA è un'eccellente operazione commerciale che ci distrae dal riflettere criticamente sulla sua qualità

Di Ipnocrazia di Andrea Colamedici si è detto fin troppo, centrando solo raramente il punto.

Sì, dico Ipnocrazia di Andrea Colamedici perché Jianwei Xun, presunto autore e sedicente filosofo di Hong Kong dalla biografia inesistente, è il frutto di una sapiente architettura mediatica della casa editrice Tlon.

Prima del disvelamento molti – anche autorevoli – c’erano cascati: Le Figaro, El Pais, persino un assist del presidente Macron che forse è un gran lettore di Le Grand Continent.

In Italia, per il provincialismo che contraddistingue la critica nostrana, è stato rilanciato dopo aver visto che all’estero destava qualche interesse, ma soprattutto dopo la duplice rivelazione dell’Espresso.

La caporedattrice del settimanale, Sabina Minardi, ha infatti raccontato non solo che il filosofo senza passato di Hong Kong non esisteva, ma che Ipnocrazia era stato scritto con l’intelligenza artificiale, suscitando polarizzate reazioni di indignazione e fanatismo.

Il fanatismo, il contagio di massa che ha seguito, è degno del miglior José Ortega y Gasset.

I social media, Linkedin persino, le testate nazionali ed estere, si sono riempite di commenti e rimbalzi, ottenendo esattamente l’effetto pronosticato e ricercato dalla casa editrice Tlon.

Buono per vendere

C’è chi ha cominciato ad avanzare l’ipotesi che la filosofia in senso aristotelico, dei corpi che conversano in piazza incarnando nell’azione peripatetica il pensiero, si sia esaurita.

Difficile pensare che non si fosse esaurita, la pratica, molto prima dell’avvento dell’IA.

I tecno-entusiasti hanno parlato della magia di Xun come atto filosofico incarnato in una specie di pensiero collettivo.

Si è detto che l’ontologia è stata distribuita – una conclusione forse ancora più ingegnosa del libro stesso e che ci porterebbe a concepire il soggetto pensante come il network stesso.

E qui ci sarebbero delle tracce di verità perché se l’IA attinge all’immensa biblioteca borgesiana digitale, costruita da un pezzo di ciascuno di noi, sarebbe quasi romantico pensare che abbiamo tutti un po’ contribuito a questa scrittura.

Forse anche per questo, dice il professore di Harvard Noah Feldman al New York Times, che l’articolo 50 dell’AI Act, in vigore dal 2026, prevederà l’obbligo di riportare un contenuto generato con l’ausilio dell’IA.

La verità è parziale perché, come argutamente scritto su Wired, questo non è un libro creato dall’IA, ma con essa.

È un divertissement, è un gioco fatto da un giocatore abilissimo, perché Colamedici sa porre le domande e sa anche guidare le risposte.

È un filosofo lui stesso ed è un editore, quindi conosce bene le dinamiche dell’una e dell’altra cosa.

L’intera operazione, più che filosofica, è editoriale, dunque economica.

Se Xun è un sintomo, lo è certamente di una certa ridondanza di contenuti, un chiacchiericcio che alimenta lo striminzito villaggio globale che abitiamo.

Ed è un sintomo anche del dissesto del mercato editoriale che si alimenta di commenti e infatuazioni, più che di contenuto.

Già letto

Tra tutta la copertura che ha seguito, è Appunti di Stefano Feltri a farsi arena di un dibattito di qualità.

La prima a scriverne in tempi non sospetti era stata la filosofa Gloria Origgi, dicendo che Xun aveva scritto “proprio un bel libro”, ma che di fatto l’ipnocrazia era un concetto vecchio almeno degli anni Dieci.

Vecchio forse come la comunicazione stessa, se il fenomeno di trance ipnotica di cui parla Colamedici non fosse consentito dalla frequenza quasi nauseante dei contenuti nell’iperrealtà.

Ancora più interessante la risposta morale ed etica rispetto all’operazione Ipnocrazia. Nonostante vi fossero dei dubbi sull’autore, il punto non è l’uso di pseudonimo in campo letterario, come scrive Giuseppe Pellegrino:

“Janwei Xun non esiste. Ma il giochetto lo si è potuto fare solo perché altri autori esistono e la maggior parte dei libri di saggistica non sono prodotto di un inganno. Qui non conta che a scrivere sia stata l’intelligenza artificiale […] Conta che chi scriveva non era chi diceva di essere, cosa che può avvenire che la bugia sia di fonte umana o artificiale”.

Ma è qui che si coglie la strategia commerciale.

Scegliere un autore di Hong Kong non è casuale: alimenta l’occidentalismo esotico trasportandoci nell’avamposto democratico, presunto tale, in quell’Est asiatico a cui mercato editoriale e cultura pop guardano con interesse.

 Ipnocrazia di Andrea Colamedici non ha dimostrato che esiste l’ipnocrazia.

Ha dimostrato perverse dinamiche di attenzione, per cui se si dispongono in anticipo di certe leve di distribuzione e potere, è possibile titillare le pance dei commentatori.

E se poi si usa lo scandalo, una tattica da rotocalco del primo dopoguerra, il successo è garantito, perché l’attenzione è sviata dal contenuto al mezzo, dal valore dello scritto al suo significante di avatar filosofico.

All’accusa di Pellegrino risponde Colamedici stesso, intrappolato nella sua stessa finzione, cita Xun stesso parlando di “sovranità percettiva condivisa”.

La risposta è una non risposta, perché riconduce all’attuale crisi in corso la giustificazione per un atto che non fa che alimentarne le storture.

Aggiunge: “Il patto tradizionale si fondava su alcune condizioni oggi profondamente in crisi. Nella comunicazione attuale, che è plasmata da logiche di visibilità, amplificazione selettiva e automazione dei flussi informativi, queste condizioni si sono fatte opache, fluide e talvolta contraddittorie”.

Forse che questa è una motivazione in più per non renderle altrettante opache e  contraddittorie?

E deve essersi sentita molto ingannata da lettrice anche Origgi, avendo reagito a questo presunto patto con una certa dose di risentimento.

Non è, ma è

Colamedici nella sua arringa difensiva fa riferimento a un patto di vigilanza condivisa, e qui si arriva al punto cruciale: su cosa dobbiamo vigilare?

Sul fatto che l’autore non esista? Di scarsa rilevanza, tutto sommato. Chissà che risonanza avrebbe avuto se fosse stato pubblicato da un giovane dottorando del beneventano.

Sul fatto che sia stato co-scritto con l’IA? Irrilevante, perché l’abilità di prompting di Colamedici, o di Xun che sia, è fuori discussione.

Dunque su cosa si deve vigilare e, invece, non abbiamo vigilato perché fuorviati da tutto il resto? Sulla qualità del contenuto.

Il fatto che sia stato co-scritto con l’IA, una pratica a cui forse dovremo abituarci come lettori, è un problema nella misura in cui ne risente la qualità del libro stesso.

E questo è un volume pedante, un’infinita litania di concetti fumosi, masticati e impiastricciati dentro neologismi.

Che vi siano concorrenti sistemi di realtà, che il fact-checking sia morto, che il feed sia un’ipnosi, viene tutto ripescato e sintetizzato in slogan che accendono i palati di riviste e influencer della “cultura”.

Sulla “politica dello scroll infinito” di cui parla Colamedici, ad esempio, aveva già scritto tutto Giorgio Maria Cornelio, edito anche lui da Tlon e che proprio su Indiscreto elogia Ipnocrazia.

Ipnocrazia, oltre l’operazione commerciale e mediatica, resta un volumetto arzigogolato, che si diverte a sintetizzare il grande problema di questo tempo.

Ci sono tracce di concetti dallo stesso spessore epidemico come infodemia, infocrazia, infossicazione, e di nuovo il disperato bisogno di trovare parole nuove per suscitare lo stesso identico allarme.

E anche perché le parole nuove funzionano molto bene per il mercato del discorso pubblico.

È un libro in cui, come succede negli impostori di Emmanuel Carrère, ci sono tracce sparse di autodenuncia: riferimenti ad altri autori inesistenti, a collettivi, a dialoghi con Claude 3.5 Sonnet.

I capitoli sono organizzati in modo disordinato e l’architettura argomentativa non è consequenziale, ma rapsodica e ripetitiva.

Il contenuto fa un rimpasto di quanto già detto sul tema della manipolazione nell’era di piattaforma e risulta perfettamente fedele del modo di procedere di ChatGpt ma anche della mole di cultura di Colamedici, che prende a spizzichi e bocconi alcuni leitmotiv delle precedenti pubblicazioni, sopra a tutti la riflessione sul desiderio e sull’estetica.

Quanto allo stile, è una lettura insostenibile che rivela tutta la sua artificiale co-creazione. È una lunga litania fatta di “non è…., ma è…”, di superflui giochi di parole.

È un non-stile in cui la sintassi è ridotta al minimo indispensabile della frase di stampo anglofono – per rendere più semplice la traduzione, forse? –, infarcita di corsivi per attirare l’attenzione e facilitare il repost. Una non-voce, in cui ogni frase si ripete ritmicamente allo stesso modo.

Ma nell’abbassamento generale della qualità delle pubblicazioni, suona come il redivivo Guy Debord.

Dunque, di nuovo, la domanda cruciale non è sulle buone intenzioni della casa editrice, a cui vanno riconosciute una serie di capacità di intercettare i bisogni di consumo e una scaltrezza nel metterli a disposizione dei pubblici.

Ma cosa dice di noi, che lo abbiamo divorato come una primizia?

Che “ne abbiamo apprezzato la voce”, come in un articolo di Italian Review che si offre di spiegarci perché la nostra mente funziona per storie, senza riconoscere che la storia non è nel libro ma è del libro? Il fenomeno spettacolare dell’autore – l’autore-asiatico, l’autore-presunto, l’autore-artificiale, l’autore-collettivo – travalica i confini del contenuto.

Eppure forse la più grave delle lacune di Ipnocrazia è che manca di una controproposta costruttiva.

Nella sua fumosa vaghezza, nel suo minestrone di allusioni, invoca a “navigare il sogno”.

A giungere in soccorso un commentatore su Linkedin, che dopo un’accurata disamina del pamphlet capolavoro, sintetizza con estrema efficacia come si può resistere alla trance della vita di piattaforma:

Fare gli aperitivi. Chillare. Fare gli aperitivi. Improvvisare. Poi un altro aperitivo.

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Ludovica Taurisano è dottoranda di ricerca in Global History and Governance per la Scuola Superiore Meridionale di Napoli, con un progetto di ricerca sull’editoria popolare e l’informazione politica negli anni Sessanta e Settanta. Con una formazione in teoria e comunicazione politica, si è occupata di processi di costruzione dell’opinione pubblica; ha collaborato con l’Osservatorio sulla Democrazia e l’Osservatorio sul Futuro dell’Editoria di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Oggi è Program Manager per The European House – Ambrosetti. Scrive di politica e arti performative per Birdmen Magazine, Maremosso, Triennale Milano, il Foglio, Altre Velocità e chiunque glielo chieda. Ogni tanto fa anche cose sul palco.