Da Starbucks a Delta Air Lines, sono sempre di più le aziende americane che si appoggiano a social come TikTok e Instagram per farsi pubblicità. I testimonial? Sono gli stessi lavoratori.
Sebbene, infatti, per anni la considerazione generale da parte dei brand in merito ai social network sia stata quella di scoraggiare i dipendenti dal condividere contenuti legati al lavoro sui social, oggi la tendenza si è invertita.
Così, chi arriva a lavoro prima di mettersi all’opera registra un 30 secondi di video su come si prepara alla giornata, le promozioni da non perdere e racconta la propria vita quotidiana in azienda.
@zachhawkins33 If you’ve never had a delicious #italianbeefsandwich from @portilloshotdogs you’re missing out! Here is how we make them. Warning, it will make you hungry! #Portillos #portillossurprise #portillosarizona #delicious #food #beef
Un’inversione di tendenza
Indagando le ragioni della scelta, le aziende che hanno adottato questo approccio spiegano che i contenuti generati dai dipendenti hanno un impatto diverso rispetto alle campagne tradizionali: risultano più credibili, spontanei e capaci di generare engagement.
L’autenticità diventa così una leva strategica per il marketing e l’employer branding.
Per fare un esempio: una barista di Starbucks ha pubblicato un video in cui prepara bevande natalizie con attrezzatura fornita dall’azienda. Il risultato? Oltre 800.000 visualizzazioni e un ritorno d’immagine immediato, senza costi pubblicitari aggiuntivi.
Insomma, un metodo apparentemente facile e veloce per guadagnare introiti extra senza spendere un centesimo.
Ma i dipendenti che cosa ricavano da questo lavoro aggiuntivo? Secondo quanto riferisce il Wall Street Journal, nessun aumento in busta paga ma, oltre alla visibilità, l’accesso a benefit come viaggi di lavoro e corsi di formazione professionale.
@bridgetthebarista The holidays officially start when the red cups drop ❤️ @starbucks @starbuckspartners #RedCupSeason #GreenApronCreator
Verso una nuova era della pubblicità
Essere in grado di comunicare in modo breve, visivo, incisivo e virale è ormai considerata una skill professionale.
Così alcuni grandi brand, soprattutto esteri, stanno iniziando a formare i dipendenti sullo storytelling digitale, la gestione dei social e le tecniche di produzione video.
Immersi in questo nuovo mondo, i lavoratori diventano, come accennato, brand ambassador della stessa azienda in cui prestano servizio, assottigliando il confine tra dipendente e pubblicitario.
Con nuove metriche di performance, le visualizzazioni e i follower entrano nelle strategie di comunicazione mentre la narrazione diventa parte integrante e fonte autorevole dalla quale prendere ispirazione e, chi sa, magari spingere alcuni followers a candidarsi loro stessi.
Le sfide aperte
Se questa nuova modalità di farsi pubblicità può, appunto, risultare semplice, veloce ed efficace per le imprese, da un’altra parte dare questa libertà ai dipendenti comporta anche rischi di incoerenza comunicativa.
Chi gestisce questo tipo di comunicazione che sfugge agli stessi reparti e uffici aziendali? E chi valuta se il tono utilizzato sia coerente e in linea con quello promosso e diffuso dallo stesso brand? La reputazione della stessa azienda viene, quindi, avvalorata oppure rischia di essere minacciata?
Infine, questo tipo di promozione non passa per i canali ufficiali aziendali ma dai profili personali dei dipendenti. Quanto è giusto, quindi, accostare le proprie “pillole di vita” alla quotidianità lavorativa? E fino a che limite ci si può spingere?
Mentre si assiste alla trasformazione dei dipendenti in micro-influencer ci troviamo di fronte a un sostanziale cambio di paradigma: il capitale umano non è più solo forza lavoro, ma anche media company diffusa attraverso modelli partecipativi, fluidi e digital-native.




